Sulle ali dello Spirito

IL PADRE, I POVERI,
UNA COMUNITÀ FRATERNA E MISSIONARIA

Orientamenti pastorali
per il triennio 2016/2019

1.
Che cosa ci chiede oggi il Signore? Che cosa chiede alla chiesa pistoiese? È la domanda che ci ha accompagnato nell’anno appena trascorso. Abbiamo cercato insieme di ascoltare ciò che lo Spirito ci andava dicendo. Abbiamo pregato e ci siamo confrontati. Abbiamo fatto attenzione agli inviti di Papa Francesco nella sua Esortazione apostolica EVANGELII GAUDIUM, ai due sinodi sulla famiglia e al Convegno ecclesiale di Firenze. Il cammino percorso negli anni passati è stata una preziosa eredità. Davanti ai nostri occhi sono scorse le nostre inadempienze, le debolezze, le fragilità e i nostri peccati che però non ci hanno fermati. Siamo poveri e sappiamo di aver bisogno del collirio per vederci bene (Apc 3,18). È una grazia saperlo. Ci sentiamo incapaci di fare grandi progetti perché conosciamo la nostra debole volontà. La prima cosa che credo abbiamo capito è proprio che dobbiamo partire dall’umile riconoscimento della nostra limitatezza, affidandoci totalmente al soffio dello Spirito senza far conto sulle nostre forze. Ciononostante il Signore ci chiede ugualmente di osare (2Cor 4,7). Osare di camminare, anzi addirittura di volare sulle ali dello Spirito, sui sentieri che Egli ci ha suggerito e che io, oggi, come vescovo di questa santa chiesa, segno di Colui che è il vero pastore delle anime nostre, autorevolmente propongo come cammino comune, strada da percorrere insieme. Verso dove dunque? A me pare che lo Spirito ci spinga, fortemente e dolcemente, a conoscere, contemplare e ritrovare Dio come Padre ricco di misericordia per noi e ogni sua creatura; a riconoscere nei poveri il volto concreto di Cristo da servire ma anche da cui apprendere la via della vita; infine ad ‘uscire’, a essere cioè comunità di fratelli e sorelle che si amano e che vanno incontro ad ogni persona, in una testimonianza che è missione d’amore e di speranza.

2.
“Sulle ali dello Spirito. Il Padre, i poveri, una comunità fraterna e missionaria”. Il titolo di questa lettera è allora il nostro programma, ardito e ambizioso perché non nasce dalle nostre qualità o risorse ma dalla bontà di Dio che col suo santo Spirito rinnova la faccia della terra e trasforma i peccatori in figli suoi. Si tratta di volare alto sorretti dalla brezza leggera dello Spirito, liberi e gioiosi, perché Dio sia Dio nella nostra vita, i poveri siano accolti e amati e con i fratelli e le sorelle di fede si stringano legami di pace per servire ogni uomo.
Presento oggi alla diocesi questa mia lettera pastorale per tracciare autorevolmente il cammino della nostra Chiesa nel prossimo triennio, fino cioè all’ottobre del 2019. Lo faccio nell’orizzonte del Concilio Vaticano II, vera Pentecoste dello Spirito che ha voluto la Chiesa nel mondo, segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano; alla luce di quanto detto dal Santo Padre nella Bolla d’indizione del giubileo MISERICORDIAE VULTUS e lasciandomi guidare dalla sua Esortazione Apostolica EVANGELII GAUDIUM.
Faccio tesoro comunque soprattutto del percorso diocesano di verifica, sfociato nella bella Assemblea sinodale del 19 e 20 novembre scorso. È stato un dono di grazia. Abbiamo percepito il soffio dello Spirito e non possiamo che ringraziare il Signore per questo. Naturalmente non posso e non intendo riprendere ogni cosa delle tantissime dette. Un cammino si fa necessariamente individuando priorità e strade percorribili nel tempo. Spero lo comprendiate. Mettere tutto sul fuoco non permetterebbe di fare le cose per bene e non credo che il Signore ci chieda questo. Ci domanda di camminare ma con discernimento, ponendo le pietre una sull’altra, a partire dai fondamenti, affinché la casa sia saldamente costruita sulla roccia, ben compaginata e capace di accogliere la famiglia di Dio come pure ogni uomo e donna che cercano quell’ “oasi di misericordia” che Papa Francesco ci chiede di essere.
Chi si attendesse da questi orientamenti una lista di cose da fare o un semplice riassunto sintetico delle molte cose dette, si sbaglierebbe. Quel che dico non ha affatto la pretesa della esaustività. Nella mia responsabilità di successore degli apostoli ho dunque cercato anch’io di fare discernimento, rielaborando quanto è venuto fuori dal confronto comunitario e come lo scriba accorto del vangelo (Mt 13,51-52), ho cercato di trarne orientamenti e tracce, stimoli e suggestioni.

3.
Vi dico subito che questa lettera non attende semplicemente di essere messa in pratica come si fa quando si riceve un ordine. È piuttosto inviata ai singoli e alle parrocchie, come pure alle associazioni, ai movimenti, alle comunità dei consacrati, perché sia ‘ricevuta’ nello Spirito Santo innanzitutto per assimilarne le idee guida, le motivazioni, gli orizzonti di marcia, l’appello del Signore che, come vescovo di questa chiesa, mi pare di avere individuato nell’oggi della nostra storia. Senza l’assimilazione convinta di questi atteggiamenti e mentalità di fondo e senza uno sforzo di condivisione e di sintonia, non andremmo da alcuna parte. Si tratta ancora di lasciarsi guidare dallo Spirito a respirare col respiro profondo di Dio Padre, fino ad abbracciare gli orizzonti grandi della sua misericordia che dà speranza ai cuori, vivendo in pienezza la vita con gioia, gratitudine e responsabilità.
Vorrei dunque che questi orientamenti pastorali alla Chiesa di Dio che è in Pistoia, fossero ricevuti e accolti primariamente così, come un invito a riesaminare le mentalità, le convinzioni e il nostro stesso stile di essere chiesa e cristiani (Rm 12,1-3); come un richiamo a una vera e propria ‘conversione in senso missionario’ dei nostri cuori. A poco varrebbero le cose che si fanno se non nascessero da un cuore nuovo, da un convincimento profondo e comune nuovo. E non basta che questo convincimento sia di qualcuno. Esso deve essere corale, coinvolgere tutto il popolo di Dio, dal più piccolo e illetterato fedele, al più sapiente e acculturato, da chi abita la città come da chi vive nella montagna, da chi è giovane come da chi è più avanti negli anni, dal clero, come dai laici e dai consacrati.
La conversione che ci è richiesta non consiste tanto nel fare cose nuove, quanto nel fare in modo nuovo le cose di sempre, andando però all’essenziale, abbandonando senza rimpianto ciò che è superfluo, per tornare ai fondamenti. Esige dunque che si maturino in noi atteggiamenti e attitudini che piano piano strutturino le nostre persone e le nostre comunità in senso autenticamente evangelico e missionario. Atteggiamenti quali l’ascolto, l’attitudine al discernimento, l’umiltà dei pellegrini e dei viandanti, l’abbandono fiducioso nelle mani del Padre, l’amore gioioso alla vita, l’apertura empatica agli altri chiunque essi siano, il dialogo.

4.
Questa lettera pastorale – mi preme sottolinearlo – non mette la parola fine al discernimento comunitario avviato. Al contrario, lo stile e la prassi sinodale devono caratterizzare la diocesi nel suo insieme, come le parrocchie, le associazioni e i movimenti anche in questa fase di recezione degli Orientamenti pastorali triennali. Questi, potremmo definirli un ‘programma aperto’, un testo per un ulteriore lavoro.
Desidero pertanto che il periodo che va da oggi al giugno prossimo sia dedicato all’attenta lettura di essi nelle parrocchie, nei vicariati e in ogni altra articolazione ecclesiale, per assimilarne gli assunti e le prospettive generali. Circa i suggerimenti più operativi contenuti nella Lettera, ci si dovrà domandare che cosa sia possibile fare nel proprio contesto, valutando la realtà in cui si è inseriti, leggendo con discernimento spirituale l’ambiente umano e sociale nel quale si vive. Ci si chiederà perciò quali indicazioni siano più urgenti nel proprio territorio, come vi si possano tradurre, come accoglierle. Si apre dunque un tempo che possiamo definire di ‘ricezione creativa’. Un tempo ancora di discernimento guidato dallo Spirito, perché sia ogni comunità a capire e individuare i gesti concreti, le conversioni possibili, le tappe efficaci di un cammino ben ponderato e coraggioso a un tempo. Questo periodo di ‘recezione creativa’ inizierà con una mia visita ai vicariati per presentare di persona gli orientamenti e facilitarne l’accoglienza. Terminerà poi stilando ogni parrocchia, o meglio ogni gruppo di parrocchie in alleanza, una traccia di cammino della comunità, sulla scia di quanto indicato per tutta la Diocesi.
Ciò presupporrebbe, lo si capisce bene, l’esistenza in ogni parrocchia o gruppo di parrocchie in alleanza di un Consiglio Pastorale. Ecco allora il mio invito a mettere in essere dovunque questi Consigli. Laddove ciò non fosse ancora possibile, si supplisca per il momento con l’insieme degli operatori pastorali.

5.
Come già ho avuto modo di dirvi nel tempo che ci ha portato all’assemblea sinodale, dobbiamo sempre chiedere con insistenza luce e forza allo Spirito Santo. Non stanchiamoci di farlo! Non presumiamo delle nostre capacità e risorse! Non pensiamo di saper fare e di avere in mano le ricette! Umilmente e con verità chiediamo insieme il dono dello Spirito. Che sia Lui a guidarci e sorreggerci, a ispirarci e a muoverci. Occorre essere convinti, convintissimi, che “senza la Sua forza, nulla è nell’uomo, nulla senza colpa”, perché solo Lui “lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina, piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò che è sviato”.
Questo “permanere in preghiera” (Lc 18,1) nell’ascolto orante della parola del Signore, con l’atteggiamento di Maria che “meditava nel suo cuore” le cose di Dio (Lc 2,19), questo stare “nel cenacolo” a invocare il dono dello Spirito (At 2,1-13), sia preoccupazione di ogni parrocchia. Esso è punto sostanziale per il cammino pastorale della diocesi nei prossimi tre anni. È indispensabile, per riuscire ad ascoltarci reciprocamente con attenzione e rispetto e quindi poter operare quel discernimento comunitario che è stile di vita. Questo ci permetterà di osare, di volare, di intraprendere anche cammini nuovi, sperimentando con gioia e letizia di cuore la libertà dello Spirito.

DIO PADRE

6.
Riprendo ora qui di seguito quanto ho indicato nel titolo di questa Lettera. A cominciare dalla menzione di Dio Padre. Oggi urge ritrovarlo, questo Padre, sperimentando nella vita la sua infinita misericordia. “Misericordes sicut Pater” (Lc 6,36), ci dice il motto evangelico dell’anno santo indetto da papa Francesco. I ‘segni dei tempi’ questo ci dicono innanzitutto: che il nostro mondo ha urgente bisogno di riscoprire la presenza di un Padre vero, misericordioso e tenero, datore di vita e di speranza. La nostra è una società sostanzialmente di orfani. Fatta di gente che non si sente più voluta con amore, amata senza riserve, accompagnata con premura. Il terrorismo in nome di Dio, rischia inoltre di allontanarci ancora di più da Lui, facendocelo vedere come un mostro sanguinario. Di qui la nostra prima responsabilità, impellente responsabilità: ritrovare Dio, il Dio vero. “Mi alzerò e andrò da mio Padre”, così dice il figlio lontano, dopo aver provato l’amarezza della perdita di ogni cosa (Lc 15,11-32). Lo stesso pensiero, la stessa risoluzione abiti la nostra mente e il nostro cuore e ci metta in cammino. Sì, alziamoci e andiamo da nostro Padre! I suoi occhi ci stanno già aspettando, Egli è pronto ad abbracciarci e a rivestirci dell’abito più bello, quello della nostra dignità di uomini e di figli! Ritengo che lo Spirito Santo proprio a questo ci abbia innanzitutto fortemente invitato!
C’è dunque da imparare a contemplare il Padre e adorarlo, perché “vedere il Padre ci basta” (Gv 14,8); c’è da lasciarci guardare “da lontano” da Lui (Lc 15,20) coi suoi occhi grandi che hanno la profondità e l’intensità di quelli del Verbo incarnato. Il volto del Padre infatti è Lui e solo attraverso la sua dolce e forte umanità, possiamo contemplare il Padre di ogni misericordia e conoscerlo così come siamo conosciuti. Fermarsi nella contemplazione del Padre che si rivela a noi in Gesù Cristo è possibile perché lo Spirito Santo ce ne dà la capacità. Egli fa sgorgare dal profondo dell’anima gemiti inesprimibili che si fondono però in un’unica parola ben comprensibile: “Abbà, Padre” (Rm 8,14), mentre la creazione intera geme e soffre come nelle doglie del parto nell’attesa della rivelazione dei figli di Dio (Rm 8,23). Dobbiamo avere il coraggio di avventurarci nel sentiero della contemplazione e in certo qual modo imparare a ‘lottare con Dio’ come fece Giacobbe con l’Angelo (Gen 32,23-33), o come Mosè sul monte, quando implorava insistentemente misericordia per il suo popolo dalla “dura cervice” (Es 32,7-14).
I cristiani del ventunesimo secolo non possono che essere dei contemplativi, dei mistici che vivono alla presenza di Dio pur restando in mezzo agli uomini, anzi assumendosi tutte le responsabilità necessarie per questo nostro mondo, la terra, il cosmo, la società. Le nostre comunità parrocchiali, se non riescono a introdurre i bambini, i ragazzi, i giovani, le famiglie e le persone in genere a questa contemplazione e adorazione del Dio vivente Padre misericordioso, falliscono il loro compito e si riducono ad essere un’accozzaglia di iniziative e di attività senza capo né coda, coacervo di piccoli e ridicoli poteri e spazi di incomprensione e incomunicabilità. E così non riusciranno ad attrarre chi è in cerca della vita, chi domanda libertà e amore, quelli che vanno errando chiedendo verità, o chi è orfano della speranza; anzi lo allontaneranno, scandalizzato dal sale che ha perso il sapore e dalla luce che è stata nascosta sotto il moggio (Mt 15,13-16).
Non c’è da aver paura che la contemplazione e l’adorazione del Padre ci alieni dalla storia e dal concreto servizio ai poveri! Tutt’altro. Contemplando il Padre, ci accorgeremo che il suo volto misericordioso è rivolto agli uomini peccatori, all’umanità intera perché trovi la via della salvezza (Sal 67,2-3), Egli infatti è amante della vita e non vuole che il peccatore muoia, ma che si converta e viva (Sap 11,21-26). Fissando i nostri occhi in quelli del Padre, sentiremo distintamente la sua voce che ci chiede conto dei nostri fratelli: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). Così disse Dio a Caino. E non possiamo, non vogliamo, rispondere come lui: “Son forse io il custode di mio fratello?”. Il Padre del Signore Gesù che è anche nostro Padre, ci orienta inevitabilmente verso gli altri. Ci fa entrare nel suo progetto universale di salvezza, ci spinge ad avere i suoi occhi, i suoi pensieri, le sue attese, la sua misericordia, a guardare le cose e a giudicarle come le vede e le giudica Lui. La contemplazione del Padre misericordioso ci conduce a essere misericordiosi come Lui. Per la comunità cristiana, ciò significa scoprirsi ‘chiesa in uscita’ e convertirsi alla missione.
Per riconoscere concretamente il posto di Dio Padre nella nostra vita e fare esperienza della sua misericordia, oltre a quanto ho già detto in precedenza circa il ‘permanere in preghiera’, il vivere nelle nostre parrocchie un clima da ‘cenacolo’ dove, insieme con Maria, si invoca costantemente il dono dello Spirito, mi pare ci sia da puntare su alcune cose in particolare: 1) la ripresa della riforma liturgica; 2) la diffusione capillare dei gruppi di Vangelo; 3) il rinnovamento della Iniziazione cristiana; 4) la formazione permanente con la riscoperta del Sacramento della riconciliazione.

7.
La riforma liturgica non è terminata. Occorre dare più attenzione alla Liturgia e alla celebrazione dei Sacramenti perché siano vera preghiera, consapevolmente, coralmente e personalmente rivolta al Padre. La celebrazione liturgica che si dipana nell’anno liturgico attraverso i vari tempi ma anche facendo memoria della Vergine Maria e dei santi, non può mai essere considerata una cosa da fare accanto alle altre. Mai può essere ritenuta una ‘attività’ da compiere perché obbligata o un sovrappiù rispetto alla vita della comunità. Mai soprattutto un formalismo, un vuoto ritualismo, un insieme di cerimonie che alla fine lasciano il tempo che trovano. La liturgia, in specie la SS. Eucaristia non è cerimonia: è vita e vita in pienezza. È Cristo vivo e vero che ci parla, si dona a noi e si offre con noi al Padre. È partecipazione alla lode che l’Unigenito rivolge al Padre, riconoscimento del suo amore misericordioso, obbedienza al suo disegno universale di salvezza. Ed è per questo che la Liturgia deve essere trattata con sommo rispetto e mai manipolata a proprio piacere: essa è infatti dono che si riceve e a cui si partecipa, non invenzione dell’uomo. È evento di salvezza, proclamazione efficace della parola di Dio, effusione mirabile dello Spirito Santo che ci dà vita e ci santifica, salvezza del mondo, effluvio del sangue redentore di Cristo che scende sull’umanità e lava i nostri peccati. La liturgia deve essere il centro e il cuore pulsante della comunità cristiana, il culmine e la fonte di tutta la vita. Tutto lì deve tendere. Tutto da lì deve discendere. Nell’Eucaristia, i poveri sono saziati, gli umili esaltati e i deboli sostenuti. L’Eucaristia, cura le nostre ferite e i cuori di pietra si sciolgono al calore dello Spirito; le membra stanche e affaticate trovano ristoro e i dispersi sono raccolti in unità. Dall’Eucaristia ben preparata e ben celebrata, nascono gli ardimenti della generosità, il coraggio dei martiri e la forza dei profeti, mentre i discepoli del Signore diventano lievito nella pasta del mondo, capaci di testimoniare l’amore del Signore e di servire con dedizione gli scartati della società. Da ogni celebrazione liturgica dobbiamo uscirne ringiovaniti nella fede, nella speranza e nell’amore. E perché sia davvero così, perché si alimenti quel sentimento di adorazione necessario per vivere bene la liturgia, è molto utile che il mistero del Pane della vita continui ad essere adorato anche oltre la S. Messa.
Un accorato appello mi sento di rivolgerlo ai presbiteri e diaconi che hanno il ministero della parola. Si curi con la massima attenzione l’omelia, momento alto e significativo della celebrazione liturgica. Molto opportunamente può essere preparata insieme ai laici, accogliendo il loro importante contributo. Papa Francesco ha dedicato all’omelia diversi paragrafi della sua Esortazione apostolica EVANGELII GAUDIUM (nn. 135-159). Sono da leggere con attenzione.
Ritengo in sostanza che la nostra chiesa abbia bisogno di riscoprire il senso profondo della liturgia, senza presumere che tutto ormai si sappia, che la riforma liturgica sia compiuta e che quindi si possa pensare ad altro. Il modo migliore sarà riprendere in mano e meditare il dettato conciliare della SACROSANTUM CONCILIUM.

8.
L’ascolto orante della parola di Dio in piccoli gruppi nelle famiglie è un’ottima pratica già presente in diocesi. Penso che sia bene incrementarla. Si dovrà dunque non solo continuarla, curando gli animatori a servizio dei gruppi di ascolto per qualificarla sempre di più, ma si cercherà altresì di moltiplicarla, in modo tale che i gruppi di Vangelo siano presenti in tutte le parrocchie della diocesi, dalle più grandi alle più piccole. Mi parrebbe bello inoltre che questi gruppi evolvessero e pian piano prendessero la fisionomia di vere e proprie piccole comunità fraterne, di cenacoli di vita cristiana dove ci si accoglie, si sperimenta l’amore del Signore nel dono della sua Parola, si condivide quello che si è e in certa misura anche quello che si ha e s’impara ad essere evangelizzatori nei propri ambienti di vita, comunicando ad altri “com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme” (Sal 133,1).

9.
Il rinnovamento dell’Iniziazione cristiana andrà senz’altro continuato e approfondito, perché è vero punto nevralgico nell’educazione dei credenti a vivere da veri figli del Padre e per la conversione in senso missionario delle parrocchie. Il rinnovamento in diocesi è già stato avviato e diverse comunità lo stanno sperimentando. Le esperienze in atto andranno attentamente vagliate, correggendo eventualmente il tiro, ma il cammino va nella direzione giusta e quindi è da riprendere, continuare ed estendere. E qui ci vuole unità di intenti e di prassi, non muovendosi in ordine sparso, sconcertando così non poco la gente. L’idea di fondo che ci deve tutti guidare è che l’Iniziazione cristiana non si identifica con una mera preparazione ai sacramenti della prima Comunione e della Cresima, né con un’acquisizione soltanto di conoscenze teoriche e neppure con un insegnamento di stampo moralistico. Neppure può dirsi semplicemente ‘catechismo’. Essa è il processo attraverso il quale si diventa cristiani, si diventa cioè ‘uomini nuovi’ in Cristo, si assume la sua mentalità, il suo modo di giudicare e di vivere, si impara a lasciarsi guidare dallo Spirito, mettendosi a disposizione del Padre per compiere la sua volontà, testimoniando la sua misericordia per ogni uomo. Nell’Iniziazione cristiana la prima preoccupazione non è quella di ‘istruire’, bensì di far scoprire la bellezza straordinaria del Signore Gesù e la meravigliosa sua proposta di vita nuova, Lui ‘volto della misericordia del Padre’ che dà senso alla vita e conduce alla gioia dell’amore vero, pur passando attraverso il dolore della croce.
Ricordo qui che il cammino dell’Iniziazione Cristiana si avvia dal momento della richiesta del battesimo da parte dei genitori, col coinvolgimento fin da subito proprio di essi, dell’intera comunità cristiana, del sacerdote e dei catechisti, per giungere poi senza soluzione di continuità – ribadisco, senza soluzione di continuità – attraverso i sacramenti dell’Eucaristia e della Confermazione, al momento delle decisioni personali di vita nell’età giovanile. In questo cammino, tutte le dimensioni della persona sono coinvolte; si procede infatti per azioni, segni e riti, conoscenze e pratiche di vita, preghiera, esercizio della carità ed esperienze di missione.

10.
Non mi dilungo sulla formazione cristiana. Cito semplicemente il Concilio Vaticano II che mi pare illuminante nella GRAVISSIMUM EDUCATIONIS, al n.2, dove si dice che essa: “non mira solo ad assicurare quella maturità propria dell’umana persona, ma tende soprattutto a far sì che i battezzati, iniziati gradualmente alla conoscenza del mistero della salvezza, prendano sempre maggiore coscienza del dono della fede, che hanno ricevuto; imparino ad adorare Dio Padre in spirito e verità (cfr. Gv 4,23) specialmente attraverso l’azione liturgica; si preparino a vivere la propria vita secondo l’uomo nuovo, nella giustizia e santità della verità (cfr. Ef 4,22-24), e così raggiungano l’uomo perfetto, la statura della pienezza di Cristo (cfr. Ef 4,13), e diano il loro apporto all’aumento del suo corpo mistico. Essi inoltre, consapevoli della loro vocazione, debbono addestrarsi sia a testimoniare la speranza che è in loro (cfr. 1 Pt 3,15), sia a promuovere la elevazione in senso cristiano del mondo, per cui i valori naturali, inquadrati nella considerazione completa dell’uomo redento da Cristo, contribuiscano al bene di tutta la società.”
A queste bellissime e sempre attuali parole, aggiungo soltanto che in ogni comunità cristiana, ‘stare alla scuola del Vangelo’ non può essere un modo di dire. Lo si deve vedere, sperimentare. Deve essere evidente che lì, in quella parrocchia, si è alla sequela di Gesù e ci si aiuta reciprocamente in essa. Chi si avvicina alle nostre parrocchie – mi domando – percepisce chiaramente che lì, tra quelle persone, si cerca il Signore? Si sta alla sua scuola e con cuore aperto si è pronti ad accogliere chi cerca, anche confusamente, la via, la verità e la vita?
Nel percorso della formazione cristiana, un posto particolare dovrebbe essere riservato alla conoscenza teologica, importantissima per una maturità di fede; come alla Dottrina sociale della Chiesa, per una incisiva presenza di Vangelo nella società e infine anche all’arte sacra di cui è estremamente ricca la nostra terra.
Non va poi dimenticato che nel processo formativo le persone sono decisive. Pur come semplici collaboratori di Dio, i ‘formatori’ sono indispensabili. Perciò, più che gli itinerari, i percorsi e i progetti, pure utili, ciò che incide per davvero nella formazione umana e cristiana è trovarsi accanto persone che comunichino qualcosa, che siano maestri di vita in Cristo.
Sollecitati anche da Papa Francesco in questo anno della Misericordia, è da considerare di capitale importanza per la formazione cristiana il Sacramento della Riconciliazione, in quanto ci da la possibilità di sperimentare la misericordia di Dio. Andrà perciò riscoperto non solo come liberazione dai peccati ma come medicina che, nel tempo, ci guarisce il cuore e la mente, rendendoci docili all’azione dello Spirito. È proprio attraverso questo sacramento che ciascuno di noi si può incontrare con il Signore Gesù che lo rimette in piedi dicendogli: “Alzati e cammina!” (Lc 5,23). È con questo sacramento che possiamo riacquistare la parola, persa per le nostre maldicenze e cattiverie; possiamo riacquistare l’udito per ascoltare il grido dei poveri che attendono giustizia e condivisione d’amore. Un sacramento dunque da riscoprire, quello della Confessione e, da parte dei sacerdoti, da amministrare con generosità, disponibilità, competenza e cuore grande di pastore.

I POVERI

11.
Il secondo riferimento nel titolo di questa lettera pastorale sono ‘i poveri’ e di essi voglio ora dire qualcosa, in quanto volto concretissimo di Dio. Nonostante che il mondo vada avanti, i poveri restano, presenza inquietante di Dio. I ‘segni dei tempi’ ci mostrano con chiarezza che c’è tanta povertà in giro che chiede speranza e vita. Magari prende nuove forme che si vanno semplicemente ad aggiungere a quelle antiche. C’è tanto bisogno di Vangelo intorno a noi! C’è una moltitudine che vaga, dolente e rassegnata, senza più nemmeno la rabbia della disperazione. Ad essa siamo mandati, ma per poter svolgere questa missione bisogna riconoscersi poveri mendicanti. Guai se non riconoscessimo la nostra povertà e pensassimo che poveri sono soltanto gli altri! Guai davvero! I poveri ci insegnano proprio questo: a riconoscere che siamo noi i primi bisognosi di aiuto. Il loro magistero è qui. Ed è tale magistero che i farisei non volevano accettare. Quanto allora è importante acquisire una mentalità che rompe con i consueti nostri modi di pensare, a volte anche quelli più generosi. Se il Signore Gesù si riconosce nel volto dei poveri, non è soltanto per muoverci a pietà pensando che è a Lui che facciamo del bene. No. La sua presenza nel povero è sempre quella del Maestro che insegna, chiedendoci di farci discepoli. Egli è presente nel volto degli ultimi per insegnarci dall’alto della sua maestà; perché solo guardando le cose, il mondo, la storia, la nostra stessa vita, da poveri, dalla parte dei poveri, si potrà sperimentare il Dio della misericordia. Chiesa dei poveri e per i poveri vuol dire esattamente questo: una comunità di fratelli che non si fanno grandi con gli ultimi ma sanno riconoscere la propria piccolezza e confidano solo in Dio. Non nel potere umano, non negli appoggi politici, non sulla forza del denaro, non sul consenso mediatico. Solo in Dio e nella sua Parola fatta carne. Una comunità allora dove i poveri si sentono a casa, fratelli tra fratelli, dove sono accolti e accolgono a loro volta gli altri e così, insieme, si ritrova la forza di vivere e nel reciproco gesto misericordioso, il volto di un Dio che è padre buono.
I poveri ci insegnano anche un’altra cosa molto importante: il valore della povertà e della semplicità di vita, come a mettere a disposizione il tempo e i beni che si hanno. Ci insegnano ad assumere cioè stili di vita sobri e non consumistici, rispettosi dell’ambiente e rispettosi di chi non ha possibilità e non si può permettere tante cose. Ciò vale sia livello personale che a livello delle nostre parrocchie.

12.
Come discepoli del Buon Samaritano, siamo chiamati a guardarci attorno per scorgere l’uomo mezzo morto al bordo della strada (Lc 10,29-37). Guardarsi intorno e scoprire le povertà, le attese, i sogni. Quelli materiali, certo, ma anche quelli di dignità e quelli, ancora più profondi, di liberazione dal male e di vita nuova nell’amore. Situazioni di povertà e di fragilità le troviamo oggi un po’ dovunque e su queste c’è da misurarsi perché lì ci aspetta il Signore. Ci sono quelle dei molti migranti che fuggono da situazioni difficili o anche soltanto vengono a noi in cerca di una vita migliore. Ci sono quelle dovute alla mancanza di lavoro o di abitazione che condiziona fortemente il futuro dei giovani. Situazioni di povertà le troviamo nella popolazione anziana e abbandonata, ma anche nel mondo degli adolescenti e dei giovani, spesso soli e in balìa di ogni illusione. Situazioni di povertà ci sono ancora nelle famiglie, nel disagio economico, come nei drammi delle separazioni e dei divorzi, degli amori rubati o malati; ancora ci sono nelle carceri e nella stessa malavita, nelle dipendenze dal gioco, dall’alcool, dalle sostanze in genere, come dal sesso, dal denaro e dal potere. Situazione di povertà è spesso quella della donna, sfruttata o percossa, violentata o messa sulla strada, comprata e venduta. O ancora quella di chi è umiliato, disprezzato e offeso per il suo orientamento sessuale. Sono però situazioni gravi di povertà anche la disperazione del cuore, la depressione, la solitudine che non risparmia niente e nessuno. Magari ci sono pure uomini che come Zaccheo del Vangelo hanno tutto, ma sono poveri d’amore, poveri perché malati di egoismo, perché schiavi di una vita peccaminosa, perché vuoti e privi di un senso per la vita. Come ci ha ben ricordato Papa Francesco nella LAUDATO SI’ (n. 1), inoltre, “fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è poi addirittura la nostra stessa terra, oppressa e devastata”. Poveri sono infine coloro che non conoscono il Signore Gesù o lo hanno conosciuto male. Se Lui è il grande tesoro nascosto nel campo, se è la perla preziosa per cui merita vendere tutto (Mt 13,44-46), anche la propria pelle, allora chi non lo conosce vive certamente in una situazione di povertà.

13.
Il triste elenco delle vecchie e nuove miserie è già lungo anche se vi ho appena accennato e non è certo completo. Invito pertanto ciascuno di voi e ogni comunità a completarlo e aggiornarlo sulla base delle proprie conoscenze e esperienze. Importante sarebbe anche cercare di capire le cause. Questo ci porterebbe a individuare con più precisione le risposte da dare, sia in termini di prevenzione che in termini di cura. Non è certo facile avventurarsi in una tale ricerca e potremmo finire per discutere soltanto, rischiando di dimenticarci proprio di chi è nel bisogno. È però comunque giusto e doveroso farlo, perché bisogna sapere che sono in gioco scelte politiche ed economiche, gli assetti finanziari del mondo, il sistema delle relazioni tra i popoli e lo stesso modello globale di sviluppo. Come bisogna pure rendersi conto che le cause ultime risiedono alla fine nel cuore dell’uomo bisognoso di guarigione, sempre tentato dal maligno di chiudersi all’altro, indifferente al suo grido di aiuto, nell’idolatria del denaro, del potere e del piacere.
In parrocchia abituiamoci a interrogarci e a chiederci chi siano nel proprio territorio gli ultimi, gli scartati, quelli che non vuole nessuno. Chi siano gli affamati e gli assetati, i nudi, i pellegrini, i malati, i carcerati e i morti da seppellire, ma anche chi siano oggi i dubbiosi, gli afflitti, i privi di conoscenze, i peccatori, le persone difficili, quelli che ci offendono, i vivi e i morti per cui pregare; chi siano e soprattutto come si possa prendersene cura efficacemente e amorevolmente; che cosa si possa oggi ‘inventare’ per soccorrere chi è nel bisogno di qualsiasi genere esso sia.
La testimonianza della carità, l’accoglienza e l’attenzione ai poveri, il saper riconoscere le attese che sono nel cuore della gente, rende l’azione caritativa della comunità cristiana vicina, contigua al suo impegno missionario di evangelizzazione. La Buona notizia di Gesù morto e risorto è l’unica vera speranza e il nome benedetto di Gesù, morto e risorto è quello dell’unico salvatore e come tale deve essere annunziato a tutte le genti. Solo però se questo annunzio di salvezza è compiuto da chi con amorevolezza si prende a cuore e si prende cura della totalità della persona dell’altro, esso risuona credibile e veritiero. Missione e carità camminano insieme.

14.
Per quanto riguarda l’attenzione ai poveri, mi sentirei di insistere perché 1) la Caritas sia presente in ogni parrocchia o gruppo di parrocchie in alleanza; 2) si diffondano in tutte le zone della diocesi i Centri di Ascolto; 3) perché L’OSSERVATORIO DIOCESANO DELLE POVERTÀ sia anch’esso messo a servizio di ogni parrocchia; 4) in ogni parrocchia o gruppo di parrocchie in alleanza ci sia un ‘hospitium’, cioè una casa di accoglienza e rifugio, una casa della carità; 5) perché si diffonda il PROGETTO POLICORO per il lavoro giovanile e il PROGETTO CASA per un alloggio dignitoso e accessibile a tutte le famiglie che ne abbiano bisogno; 6) perché infine le varie ‘opere sociali diocesane’ siano conosciute e sostenute sia economicamente che con personale volontario.

15.
È indilazionabile che in ogni parrocchia o gruppo di parrocchie in alleanza, vicariato o zona ci sia la Caritas. È bene, però, che la Caritas sia vissuta per quello che essa è, e cioè un organismo pastorale al servizio sia della crescita nella carità di tutta la comunità cristiana che della sua testimonianza di attenzione ai poveri nel territorio in cui vive.
I Centri di ascolto sono risultati uno strumento valido come ‘occhi e orecchie’ della comunità cristiana. Non solo non possiamo farne a meno, ma li dobbiamo incrementare e sostenere con convinzione. L’ascolto dovrà sicuramente cercare di essere a trecentosessanta gradi. Attento a tutti i bisogni degli uomini e delle donne di un territorio, espressi e non espressi. Non solo quelli materiali, ma anche quelli morali e spirituali. Con l’occhio del padre della parabola che vede da lontano il figlio disperso o con l’occhio del samaritano che ‘vede’ prima di tutto col cuore.
Per questo motivo, troverei importante che l’ottimo servizio dell’OSSERVATORIO DELLE POVERTÀ portato avanti dalla Caritas diocesana, diventi uno strumento di analisi e di monitoraggio diffuso nei vicariati e nelle zone pastorali, nelle varie parrocchie unite in alleanza. Coinvolgendo anche in loco persone e competenze, può essere uno strumento davvero efficace per l’attenzione alle povertà in tutti i territori della diocesi.
Mi pare inoltre giusto che in ogni parrocchia o gruppo di parrocchie in alleanza si ponga un segno concreto e particolare di accoglienza e disponibilità ai bisogni dei poveri. Come in ogni parrocchia esiste una chiesa per pregare e dei locali per stare insieme e approfondire la fede oppure per l’educazione dei ragazzi e dei giovani, così sarebbe davvero bello che ci fosse anche un luogo, una casa, uno spazio destinato all’accoglienza di chi è nel bisogno, profugo o italiano che sia; una casa cioè della carità dove ascoltare, incontrare, servire tutti coloro che si possono trovare in necessità o anche da dove si possa coordinare l’attenzione alle povertà del territorio e fare formazione in proposito. Credo che questa proposta ci permetterebbe di ripensare in senso più evangelico e missionario la destinazione dei molti locali che abbiamo ancora a disposizione.
Essendo poi le questioni ‘lavoro’ e ‘casa’ preoccupanti e urgenti, riterrei molto utile sviluppare il PROGETTO POLICORO, già avviato in diocesi ma da conoscere maggiormente e da diffondere, e il PROGETTO CASA, anch’esso già iniziato dalla Caritas, ma ugualmente da approfondire, coinvolgendovi appieno le parrocchie. Sappiamo tutti quanto il lavoro e la casa siano determinanti nella vita dell’uomo e di ogni famiglia. Non si tratta solo di cose materiali ma di dignità e possibilità di sviluppo della persona. Tali problemi richiedono risposte ‘politiche’, perché ricadono direttamente sotto la responsabilità del governo della cosa pubblica. Mentre dunque ci facciamo stimolo e pungolo nei confronti di chi ha questo compito, cerchiamo intanto di fare tutto il possibile per sostenere chi si trova in difficoltà.
Per ultimo vorrei invitare tutte le comunità parrocchiali a conoscere le varie ‘opere sociali’ presenti in Diocesi. Sono molte e rispondono alle più diverse necessità e disagi. A volte si muovono in ordine sparso quasi in competizione e questo non va bene. Sono però una grande ricchezza della nostra Chiesa, assolutamente da non perdere. Vanno perciò conosciute, sostenute economicamente e soprattutto ci vogliono nuovi giovani volontari che rimpiazzino pian piano gli operai della prima ora.

UNA COMUNITÀ FRATERNA E MISSIONARIA

16.
Eccoci giunti all’ultimo riferimento presente nel titolo di questa Lettera pastorale: “una comunità fraterna e missionaria”. Come non vedere uno dei principali ‘segni dei tempi’ nel disperato bisogno di riconoscimento e di relazioni sincere e autentiche presente nella nostra società? In quella tragica contraddizione cioè di un mondo sempre più globale e in rete eppure sempre più colmo di solitudini? Di qui l’urgenza di riscoprire e ritrovare il conforto di una comunità veramente fraterna (Gv 13,34; Gv 20,17), la profezia di cuori che si uniscono nella diversità (At 4,32), l’ “oasi della misericordia” che è la comunità cristiana. Qui però spuntano problemi, perché non riusciamo sempre ad andare d’accordo. Ma se non troviamo la via della pace tra noi, come potremo costruirla nel mondo? Soltanto se si è capaci di accoglienza reciproca e di perdono, se ci si rispetta, ci si ama sinceramente e si riesce a camminare insieme, la chiesa può mostrare il suo volto di madre tenera e dolce verso gli uomini e le donne del nostro tempo. Per essere un’ “oasi di misericordia”, la misericordia deve abitare nell’oasi della Chiesa.
Nella comunità fraterna, molti sono i doni, i carismi e i ministeri (1Cor 12,4-11; 14,26), tutti fondati sulla grazia del Battesimo che ci ha reso sacerdoti, re e profeti, accumunati quindi dalla misericordia del Padre per una missione evangelizzatrice di cui tutti siamo corresponsabili. Qui è anche il fondamento di quella comunione del Popolo di Dio che ne è tratto distintivo. Un servizio particolare lo svolgono senz’altro i presbiteri e i diaconi. Non sono essi però tutta la Chiesa. Neanche il Vescovo lo è da solo. Svolgono certamente un compito insostituibile e per questo, superando ogni comprensibile stanchezza, è loro richiesto ardore apostolico, generosa condivisione della propria vita con quella dei fedeli, coraggio e forza per guidare e servire il gregge e additare la via da percorrere, sostenendo chi è debole nel corpo e nello spirito, andando a cercare chi si è allontanato o è ai margini della vita ecclesiale. Accanto ai pastori ci sono i laici, la componente ampiamente maggioritaria del Popolo di Dio che hanno oggi più che mai una grande responsabilità. Proprio e peculiare di essi, secondo le parole del Concilio nella LUMEN GENTIUM (n. 31) è il carattere ‘secolare’, il cercare cioè il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. I laici sono partecipi a pieno titolo della vita della comunità, non sono solo collaboratori. Aggregati in associazioni o movimenti oppure senza appartenenze specifiche, i laici sono chiesa e danno un contributo fondamentale alla sua missione nel mondo. La famiglia poi riveste un ruolo decisivo nella Chiesa e nel mondo. La comunità cristiana è arricchita inoltre dal carisma dei consacrati, che, come dice ancora il Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa (n. 44), “sono un segno che testimonia l’esistenza di una vita nuova ed eterna, acquistata dalla redenzione di Cristo, che preannunzia la futura resurrezione e la gloria del regno celeste.” La loro presenza in diocesi è un dono grande.

17.
La comunità fraterna dei discepoli del Signore non esiste comunque per essere una specie di isola felice, chiusa in se stessa in un amore limitato ai fratelli e sorelle nella fede. Essa è missionaria per sua natura. È ‘chiesa in uscita’. Il suo compito è di andare per le strade del mondo, annunciare a tutti la misericordia di Dio servendo ogni uomo e donna amati dal Signore, senza chiedere niente in cambio; spandendosi sulla terra con coraggio e umiltà, come lievito che fermenta la pasta, sale che dà sapore alle cose e luce che illumina la casa del mondo. Il compito che il suo Maestro le ha affidato richiede una radicale riforma in senso missionario delle comunità parrocchiali e di tutta la chiesa particolare. Secoli di cristianità residenziale e acquisita hanno strutturato la vita delle nostre comunità sostanzialmente sul passo della conservazione, dell’occupazione dello spazio, della ‘residenzialità’. Oggi ci è chiesto di recuperare al più presto lo spirito che fu degli apostoli e delle prime generazioni cristiane, quello della missionarietà, quello dell’andare a incontrare e testimoniare, ripartendo da ciò che è l’essenziale, cioè dal primo annuncio, dal kerygma, cioè dalla buona notizia del Regno (Mt 4,23) accompagnato dalla testimonianza della carità. Tutto nelle nostre parrocchie deve essere vòlto alla testimonianza nel territorio dove si vive della bellezza del Vangelo, della novità di relazioni che esso produce e dell’amore che apre le porte ad accogliere e servire ogni uomo. Ogni celebrazione dei Sacramenti, ogni iniziativa, ogni attività abbia perciò di mira questo incontro con le persone, ricco della misericordia del Padre.

18.
In ordine alla comunità fraterna e missionaria, oltre al già citato impegno per la rivitalizzazione dovunque dei Consigli Pastorali, proporrei all’attenzione alcune altre cose: 1) una attenta verifica della effettiva missionarietà delle parrocchie; 2) la ripresa del progetto delle ‘parrocchie in alleanza’; 3) la valorizzazione in chiave missionaria delle feste tradizionali tipiche della religiosità popolare; 4) una attenzione particolare alla formazione dei laici e dei vari ministri e animatori pastorali; 5) un rilancio della pastorale giovanile coordinata tra centro e parrocchie e agganciata alla Iniziazione cristiana; 6) l’accompagnamento premuroso dei giovani che si preparano al matrimonio e delle giovani famiglie.
Mi soffermo solo brevemente sui vari punti, perché anche in questo caso, la riflessione più concreta dovrà farsi nel confronto parrocchiale, interparrocchiale e vicariale, chiarendo i termini, integrando elementi, dando priorità e avviando sperimentazioni.
La verifica dell’effettiva missionarietà delle parrocchie è importante per non rimanere nel ‘fumoso’ o nell’astratto quando si parla di missione. Occorre sapere se e come si cerchi di incontrare nel dialogo tutti quelli che risiedono nel territorio parrocchiale; anche coloro che non partecipano, non appartengono alla comunità cristiana, sono indifferenti o addirittura ostili. Penso sarebbe quanto mai opportuno organizzare poi, con l’aiuto di una specifica équipe diocesana, in stretta collaborazione coi parroci e i laici di un vicariato o di una zona pastorale, vere e proprie ‘missioni’ per il ‘primo annuncio’.
Le ‘parrocchie in alleanza’ come già in passato suggerito, sono un’assoluta necessità, ma non vanno viste come aggregazioni di carattere burocratico ‘inventate’ per la scarsità del clero, bensì come testimonianza dell’unità dei discepoli del Signore in ordine alla missione. Vanno perciò articolate concretamente dentro questo preciso quadro di riferimento. In ogni caso non si improvvisano. Sono quindi da prevedere per sacerdoti e laici, specifici percorsi formativi alla collaborazione pastorale, alla condivisione, al cammino comune.
Le nostre parrocchie vivono ancora parecchi momenti di religiosità popolare. Non sono da disprezzare. C’è da educare, questo si, ma non distruggere. Andranno gestiti bene per farli diventare occasione di evangelizzazione.
La formazione dei laici richiede da parte della comunità cristiana e da parte dei laici stessi un’attenzione speciale, perché si tratta di imparare a vivere di Cristo nel mondo, fermentando col Vangelo la vita familiare, il lavoro, il tempo libero, la cultura, la vita sociale e politica; realizzando in modo originale quella sintesi tra fede e vita, oggi quanto mai necessaria per la missione evangelizzatrice della Chiesa, assumendo stili di vita consoni al vangelo e decisamente contro corrente. Pur nel rispetto e nella valorizzazione di tutte le aggregazioni laicali e movimenti, che se ben vissuti e diretti sono una benedizione per la Chiesa e anche per la nostra diocesi, ritengo però, e lo dico con molta chiarezza, che lo strumento ancora oggi pastoralmente più adatto per la formazione dei laici, resta l’Azione Cattolica. Invito pertanto questa associazione a farsi presente in ogni parrocchia e nei suoi confronti mi aspetto in ogni comunità parrocchiale e da parte di ogni parroco una piena accoglienza e un sincero sostegno.
Ho riscontrato poi una grande richiesta di formazione specifica per gli operatori pastorali e i ministeri che punti a renderli competenti nel proprio campo di servizio ma sempre come discepoli del Signore, nutriti di senso ecclesiale e testimoni della misericordia di Dio. I percorsi formativi sono da studiare e proporre. L’apporto della Scuola diocesana di formazione teologica può risultare molto utile.
La pastorale adolescenziale e giovanile assume oggi i connotati di una vera emergenza. Legata ad associazioni o movimenti che sia, va comunque condivisa in un progetto comune e agganciata in modo organico al processo della Iniziazione cristiana. Tanti giovani si stanno allontanando, è un dato di fatto. Oggi, se non si corre ai ripari, rischiamo veramente una frattura insanabile tra generazioni nella trasmissione della fede. I condizionamenti che pesano sul mondo giovanile sono tali e tanti che l’impresa è particolarmente ardua. Dobbiamo anche essere ben consapevoli – ed è qui dove forse manchiamo di più – che ci vogliono uomini e donne dedicati agli adolescenti e ai giovani, dei ‘padri’ e delle ‘madri’ che prima di tutto li sappiano ascoltare non ‘da stranieri’, ma percependone i silenzi, le solitudini e le amarezze che non sono mai piccole, anche quando la nostra esperienza ci ha fatto capire che ci sono cose più grandi. Persone che riescano a parlare ai giovani di oggi col loro linguaggio, ma non solo a quelli che vengono in chiesa, anche agli altri, quelli che sono per le strade e hanno ben altri pensieri. La scuola, in questo senso, sarebbe terreno fecondo di dialogo e di incontro. È inoltre importante che siano i giovani stessi, resisi sensibili al Vangelo, a comunicare ai coetanei la novità bella di Gesù Cristo, sperimentando forme concrete di evangelizzazione.
Infine mi piace sottolineare che la richiesta del matrimonio da parte dei giovani rappresenta un momento privilegiato per l’approfondimento o la ripresa della vita cristiana ed è il punto in cui pastorale giovanile e pastorale familiare si incontrano. I giovani di oggi pensano la vita, l’amore, la coppia, il matrimonio, in modi che spesso hanno poco a che vedere con una coerente visione cristiana. La richiesta di matrimonio in chiesa ma anche civile è in forte calo. Nell’ambito della pastorale familiare bisognerebbe domandarsi perché sta succedendo questo, per intervenire alle radici del problema. Come bisognerebbe chiedersi perché i legami affettivi sono così fragili e poco duraturi. Come ci hanno ricordato i recenti sinodi, l’attenzione alla famiglia e alla famiglia così come essa è, con tutte le sue debolezze, non può mancare nella comunità cristiana che sostanzialmente è formata proprio da famiglie. Considero comunque motivo di gioia il fatto che ci siano ancora dei giovani che chiedano il sacramento del Matrimonio, anche se la fede è fiacca e la vita cammina su percorsi diversi da quelli della legge del Signore. È un’opportunità di incontro che Dio ci dà e la parrocchia ne approfitterà, mostrandosi accogliente e ben disposta, non offrendo ‘corsi prematrimoniali’ ma attenzione vera, calda ospitalità e accompagnamento amichevole, per favorire la scoperta della persona di Gesù Salvatore, del suo disegno d’amore per la vita delle persone, del suo progetto sull’uomo e sulla donna e della sua promessa di autentica felicità. Da lì si potrà avviare un percorso che andrà accompagnato negli anni successivi al Matrimonio, anni importanti e decisivi in cui le giovani famiglie non possono assolutamente essere lasciate sole. Se questa premura particolare per le giovani famiglie mi pare importante e urgente, resta fondamentale la cura delle famiglie in ogni età della vita, perché siano le famiglie stesse protagoniste nella parrocchia e nella società.

CONCLUSIONE

Giunto al termine di questa Lettera pastorale programmatica, torno all’inizio, dove diceva della consapevolezza della nostra povertà e debolezza. Siamo una chiesa che ha le sue ferite, è vero, ma che ha anche tanti, tanti doni da parte del Signore. C’è una ricchezza che non viene da noi ma che fa palpitare di vita questa amabile chiesa, nonostante tutte le sue miserie. Affido perciò queste pagine a voi come un piccolo contributo al cammino comune, chiedendovi di condividere con me la convinzione che le nostre potenzialità possono fiorire in bellezza soltanto col dono dello Spirito Santo e che quanto più da Lui chiederemo ispirazione perché ci infiammi al suo fuoco di carità, tanto più andremo lontani sulle sue ali. La Madonna dell’umiltà che la fantasia di Dio ha eletto a patrona di Pistoia ci tenga, come lei, seduti sempre per terra, per sperimentare però che Dio abbatte i potenti dai troni e innalza gli umili.

Pistoia, 6 gennaio 2016, Solennità dell’Epifania del Signore.
+ Fausto Tardelli

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