Alla ricerca di un nuovo volto di Dio, ci accompagna stavolta Roberto Repole, presidente dell’Associazione Teologica Italiana.  Un nuovo volto perché tempi nuovi, stagioni diverse per modi di vivere e pensare, conducono inevitabilmente anche a esperienze di fede differenti. Il contenuto non cambia, ma la fede si rinnova e l’esercito all’altar dei tempi di Pio XII, volenti o nolenti, non coincide più con il popolo di Dio dell’anno di grazia 2016. Ci siamo abituati a sentirselo ripetere: le certezze moderne, la magnifiche sorti e progressive della ragione illuminata, oggi si sono sgretolate. Il nostro tempo le ha tutte in sospetto. Anche pensare Dio è più difficile, e qualcuno si domanda se sia davvero possibile parlarne. Di sicuro, sostiene Repole, un Dio forte, alternativo e dialettico non è più accolto o gradito. La sua debolezza ci affascina di più, anche se talvolta appare così debole da far pensare che non serva poi a molto.

Puntiamo il dito sulla secolarizzazione che, aldilà di posizione di pensiero piuttosto nette, non è altro che autonomia rispetto al mondo religioso. Ma un’autonomia che spesso sconfina nell’indipendenza. Eppure se ci siamo lasciati alle spalle il Dio della tradizione e della Chiesa, i nuovi spazi dell’autonomia sono stati presto occupati da nuovi dei. Uno su tutti? La finanza, l’economia di mercato a cui siamo pronti a sacrificare di tutto.

Il Dio di Gesù – afferma Repole – non è il Dio forte, che tarpa le ali dell’autonomia dell’uomo, ma neppure il Dio debole che alla fine si confonde con l’umano. Possiamo ricordarci, piuttosto, che abbiamo di fronte un Dio umile. Parlare di umiltà non è una novità per la Chiesa. La novità è data dal rigore con cui – precisa Repole – assumiamo questa prospettiva.

Gesù lo dice: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (mt 11,29). Questa affermazione -viene da chiedersi- riguarda soltanto Gesù o dice qualcosa di Dio in sé stesso? E se pensiamo a Gesù Dio-uomo, la sua divinità si è veramente compromessa con l’umano fatto di terra? Questo suo compromettersi dice qualcosa sull’identità di Dio?

Repole prende le mosse da un brano de Il Signore di Romano Guardini che per la sua chiarezza di pensiero conviene citare per esteso: “Dio è umile.  (…) Umiltà non va dal basso in alto, ma dall’alto in basso. Non significa che il più piccolo riconosca il più grande, ma che questi s’inchini con riverenza davanti al più piccolo (…) Ma non è poi una svalutazione di sé? No. In atto di assumere la condotta dell’umiltà, il grande si sente egli stesso stranamente sicuro, e sa che quanto più arditamente egli si umilia tanto più sicuro trova se stesso (…) Quando Francesco d’Assisi s’inginocchia davanti al trono del Papa, non è umiltà, ma, credendo egli alla dignità del Papa, è soltanto verità; umiltà è la sua quando s’inchina davanti al povero, umiliandosi al suo livello non soltanto come benefattore o come animo nobile che onora in lui l’uomo, ma col cuore illuminato da Dio, che davanti alla sua indigenza si getta ai piedi come davanti a una misteriosa maestà. Chi non vede questo, deve vedere in Francesco un esaltato. In realtà egli non ha fatto altro che attuare in sé il mistero di Gesù”.

Gesù, dunque, ci ha mostrato chiaramente cosa significhi essere umile. Ma anche il Dio di Gesù, aggiunge Repole, ha scelto questa via umile: scegliendo di diventare Padre per mezzo di suo Figlio. E Gesù, da parte sua, non soltanto si è abbassato al livello dell’uomo, ma si è fatto figlio dell’uomo.

Una certa tendenza a interpretare il mistero cristiano alla luce della filosofia e del linguaggio greco ha condotto a pensare Dio nei termini di immutabilità e immobilità, insistendo, a partire dal prologo di Giovanni, su Dio come Logos, come pensiero e ragione assoluta. Rischiamo di dimenticarci così, come nello stesso prologo sta scritto che il Verbo “divenne carne”. Si è talmente chinato su di noi da diventare altro, da diventare carne. E, divenuto carne, si è sottoposto alle regole della carne, ai tempi del crescere, del divenire. Ce lo ricorda anche una certa riflessione teologica che oggi insiste sul mistero del Battesimo di Gesù, evidenziando l’aspetto dell’unzione. Tutta la vita di Gesù diventa così pienamente filiale. Anche in tutta la sua umanità diventa figlio di Dio. Dio si è compromesso a tal punto con la nostra umanità – prosegue Repole- da “aver avuto bisogno” di risorgere. Si è talmente chinato su ogni uomo da arrivare fino alla piena ospitalità di Lui in noi che prende il nome di resurrezione.

Nel silenzio di Cristo sofferente, prosegue Repole –  emerge la volontà di chinarsi su tutti. In quel momento Dio Padre non è intervenuto e questo è il segno evidente di un Dio che vuole compromettersi con l’umano, al punto  da arrivare alla morte di croce.

È dalla croce, poi, che sgorga lo Spirito. Un teologo moderno ortodosso, Sergej Bulgàkov, afferma che anche dello Spirito Santo si può parlare di kenosi. Sul termine possiamo discutere, visto che il Nuovo testamento lo riferisce solo al Cristo, ma -afferma Repole- convince l’idea di fondo. Quella, cioè,  di uno spirito donato a misura della nostra libertà e accoglienza. Lo Spirito infatti non ci impone nulla, ci abita.  Guardando, dunque, al modo in cui Dio (Padre, Figlio e Spirito Santo) si è manifestato in Gesù Cristo abbiamo davvero un Dio che si manifesta umile.

Se così si è mostrato e si rivela, il Dio cristiano deve essere pensato tale in sé stesso, in senso immanente, secondo il celebre assioma di Karl Rahner, per cui la trinità economica è la trinità immanente e viceversa. Affermazione da pensare criticamente (specialmente quel “viceversa”) in coda, ma che può farci ammettere che il Dio che si manifesta umile, perché è davvero umile. Già il fatto che si tratti di un Dio uno e trino, che cioè non sia solo ma accetti l’altro è segno di umiltà.

Così Repole si spinge a riflettere sul significato stesso della parola kenosi, cioè svuotamento. Il Nuovo testamento ce ne parla per indicare la posizione di Cristo in relazione alla nostra umanità segnata dal peccato. Dio è morto in croce, ma quella croce è l’effetto, il segno di una umanità segnata dal peccato.  Hans Urs von Balthasar, invece -fa notare criticamente Repole – ha parlato di kenosi anche a proposito della generazione del Figlio da parte del Padre, come se dare la vita significasse un sacrificio totale di sé. Ma è proprio così? Dono e sacrificio non si equivalgono. La questione non è di poco conto, perché investe tutta la vita cristiana nel suo complesso, dalla teologia alla spiritualità più spicciola. Il Padre permette che ci sia il Figlio, ammette la condizione di possibilità dell’altro,  con la sua alterità e identità.  E anche se l’essere del Figlio consiste nel riceversi continuamente dal Padre egli ricambia l’amore per il Padre con tutto sé stesso. Ne consegue che se da sempre in Dio c’è il Figlio possiamo dire che Dio è umile. Allo stesso modo, per quanto ci riguarda, se possiamo dire che nel Figlio siamo accolti, significa che possiamo entrare in relazione con l’umiltà di Dio. Un’idea che il teologo belga Adolphe Gesché permette di intendere con acume, ribaltando un pensiero assai diffuso. Egli afferma, infatti, che seppure una certa tradizione cattolica insista a ripetere che l’uomo è capace di Dio, noi, guardando al Figlio, vediamo che anche Dio è capace della nostra umanità. Una capacità che per Dio si traduce in umiltà. Lo Spirito Santo che come dono può abitare il cuore dell’uomo ce lo fa intendere pienamente. Lo Spirito, infatti abita il cuore discretamente, umilmente. Dio, è talmente  impastato di umanità, è talmente umile che nel nostro cuore possiamo dirgli sì o no.

Questo Dio umile – conclude Repole – può rappresentare un Vangelo per l’oggi.  Non è il Dio della ellenizzazione o di una certa metafisica. È un Vangelo capace di inquietare la nostra cultura contemporanea, perché la libertà dell’uomo non è la prima e ultima parola dell’uomo. Una certa cultura poteva essere violenta perché non era capace di accogliere la libertà dell’uomo, ma una certa cultura post-moderna rischia di essere ugualmente violenta laddove vive una libertà disorientata. Tante sono le libertà del mondo, ma è anche vero che ci sono molte libertà prive di senso. Zygmunt Bauman, acuto analista della nostra età liquida e disincantata ci ammonisce: se i nostri giorni sono segnati dalla libertà nelle nostre notti queste libertà diventano un incubo.

Anche per questo un Dio umile è un Dio per l’oggi. Capace di inquietare generazioni che si trovano tra le mani ogni libertà, ma nessun orizzonte grande in cui impegnarla. Un Dio umile dice la giusta autonomia dell’umano, esprime una trascendenza che non è concorrenza all’umano. E l’esperienza insegna che se ci sbarazzeremo di questo Dio umile non cammineremo a testa alta sulla strada della nostra indipendenza, ma –come indica con chiarezza il magistero di Papa Francesco -chineremo presto il capo  davanti a nuovi idoli.

(U.F.)

Nell’immagine Francesco che abbraccia il lebbroso da: “Francesco, giullare di Dio” di Roberto Rossellini (1950)

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Roberto Repole (1967), prete della diocesi di Torino, ha conseguito licenza e dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. È docente di Teologia sistematica presso la sezione di Torino della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale. Ha dedicato buona parte della sua riflessione a un ripensamento della Chiesa nell’orizzonte della cultura contemporanea. Tra le sue opere più recenti si possono segnalare: Il pensiero umile. In ascolto della Rivelazione (Città Nuova 2007); L’umiltà della Chiesa (Qiqajon 2010); Come stelle in terra. La Chiesa nell’epoca della secolarizzazione (Cittadella 2012). Dal 2011 è presidente dell’Associazione Teologica Italiana (A.T.I.). (Biografia da Edizioni San Paolo)