In occasione della visita di Papa Francesco a Palermo rendiamo disponibile on-line l’articolo dedicato a don Pino Puglisi uscito sul numero 21 del settimanale “La Vita” (3 giugno 2018).

A 25 anni dal suo martirio l’eredità del Beato Puglisi continua a portare frutto tra le giovani generazioni

Il prossimo 15 settembre, 25° anniversario dell’assassinio di Padre Pino Puglisi Papa Francesco si recherà in viaggio a Palermo, dove visiterà i luoghi “simbolo” di padre Pino nel quartiere Brancaccio. Vogliamo riproporre la figura di don Pino attraverso le parole del dott. Domenico De Lisi. Domenico è stato vicino a don Puglisi fino alla sua morte, ed è assistente sociale al Centro Padre Nostro, nato nel 1991 nel quartiere Brancaccio di Palermo per volontà dello stesso sacerdote.
 
Padre Pino è stato un educatore instancabile. Come vive l’eredità di don Pino nel Centro Padre Nostro?

Oggi manteniamo la sua intensa spiritualità e il suo alto profilo educativo, ma anche la sua concretezza. Padre Pino era un uomo del fare. Eppure la sua era un’azione prevalentemente pastorale. L’apertura del Centro Padre Nostro non era indirizzata soltanto a finalità assistenziali, ma rivolta a promuovere la dignità dell’uomo, la sua identità cristiana e poi, certamente, anche a formare una coscienza civile.

Cosa ci puoi raccontare della sua opera di evangelizzazione dei giovani, svolta in un territorio segnato da tanta violenza tra famiglie malavitose?

A Brancaccio padre Pino ha concepito il proprio ministero in un senso più missionario, rivolto all’integrazione sul territorio; fece uso delle scienze sociali per la lettura del quartiere e si fece aiutare da ‘assistenti sociali missionari’. Il primo anno a Brancaccio volle conoscere quello di cui aveva bisogno la gente, lasciando emergere i bisogni reali. Si accorse che mancavano spazi di aggregazioni e formazione, così cominciò a realizzare un centro anziani, una scuola, un asilo, un centro sportivo… molte altre cose poi si sono concretizzate nel tempo. Quest’anno ad esempio, inizieremo a realizzare un asilo nido, proprio nel cuore di Brancaccio. L’analisi di don Puglisi richiedeva degli interventi mirati che alla lunga hanno fatto fiorire un quartiere molto degradato. Da un punto di vista concreto, ma anche di formazione delle coscienze si è indubbiamente dato molto da fare.

Oggi al Centro Padre Nostro facciamo svolgere lavori utili come pena sostitutiva al carcere, inoltre in questi anni si è costituita una rete con le scuole per parlare di legalità, passando per la testimonianza diretta. Tante attività sono oggi possibili grazie al sacrificio di don Pino.

Eppure all’inizio del suo ministero a Brancaccio padre Pino non riuscì a fare breccia sulla sua comunità, che si presentava come una realtà molto chiusa, abituata a una semplice pratica sacramentale. Don Pino fece questo, ma anche altro. Uscì fuori, incontro alla gente, non era un uomo “contro” qualcuno, ma un uomo “per”, per l’uomo per la sua dignità. Per questo non volle mai scendere a compromessi, pur cercando un dialogo con chi era mafioso. Ai malavitosi domandava: «perché ce l’avete con noi? Perché ve la prendete con chi vuole migliorare le vite e il quartiere di tanta gente?».

Nella sua prossima visita papa Francesco visiterà alcuni luoghi legati a don Pino..

Nel 2014 abbiamo riaperto la sua casa, trasformandola in un luogo di testimonianza. Lì si vede la sua povertà: don Pino viveva con niente, ma era ricco dentro. La sua casa era piena di libri, libri sparsi ovunque. Questa casa museo è diventata importante per far emergere gli aspetti fondamentali di Puglisi. Era l’amico prete, che aveva sempre orecchio e spazio per ascoltarti. Amava lo studio e la conoscenza: è bello sfogliare i suoi libri e vedere quanto aveva sottolineato. E poi don Pino era il prete della preghiera, che era il suo pane quotidiano. La preghiera lo ha fatto restare saldo fino a quella sera del 1993. Quel «me lo aspettavo» con cui accolse i suoi assassini spiazzò il killer. Il suo sorriso fu “disarmante”, al punto che chi l’ha ucciso, diventato collaboratore di giustizia, ha aiutato a fare chiarezza sulla dinamica della sua morte.

Don Pino si occupò anche dei piccoli, offrendo loro la possibilità di giocare, studiare e sottraendoli al loro degrado sociale..

Quando venne a Brancaccio cominciò a organizzare molte attività rivolte ai minori e alle famiglie. Credeva molto nella figura dell’assistente sociale all’interno della comunità. Sapeva che da prete non poteva dare tutte le risposte alle esigenze della gente. Cominciò ad animare il territorio. Questo lo fece rendere sospetto agli occhi della mafia. La sua morte fu dovuta al boss Graviano perché ‘questo prete’, «rompeva le scatole, non ci lasciava in pace» proprio per la sua azione pedagogico educativa.

 A distanza di 25 anni dalla sua morte com’è cambiata la realtà giovanile di Brancaccio?

In questi anni abbiamo accompagnato molti di loro in un processo di crescita, molti li abbiamo portati a completare un percorso scolastico, altri sono maturati, anche grazie alle famiglie. Anche soltanto sapere che alcuni ammettono di avere problemi e si rivolgono a noi è un successo, significa un riconoscimento ma anche una maturazione. Al centro Padre nostro proponiamo gli elementi dell’accoglienza, del sacrificio, della solidarietà e i frutti si vedono.

In vista del prossimo Sinodo dei Giovani, quale messaggio ti sentiresti di far arrivare ai vescovi in base alla testimonianza di don Pino?

A me piacerebbe che tutti i giovani facessero le esperienze che ho fatto io. Io ho vissuto nella difficoltà, ma ho avuto degli adulti significativi. Perché possano esserci dei giovani motivati è fondamentale trovare un adulto significativo che si prende cura di te e ti fa crescere. Questo rapporto duale, che nella nostra comunità era molto presente, resta fondamentale. Nella Chiesa questa esperienza c’è, occorre sostenerla. Basterebbe dire questo: essere adulti significativi per i giovani di oggi.

 Daniela Raspollini