Gli ultimi 25 anni hanno ribaltato il mondo del lavoro. E’ tempo di cambiare (davvero)

DI MICHAEL CANTARELLA

Oggi si festeggia – in sordina come si conviene al tempo di questa dannata epidemia – il 1 maggio. Per tanti una memoria del giorno in cui si festeggia il lavoro; per altri si ricordano i morti sul campo;  per alcuni ancora il concertone di piazza San Giovanni, tra buon rock e qualche stravizio. Un altro giorno per discutere, un altro giorno per dividerci. Attenzione però, non tra chi crede che la festa di San Giuseppe lavoratore sia un altro natale laico, da snobbare e su cui far polemica, e tra chi ne incorpora appieno i valori e scende in piazza per il corteo. La vera – e silenziosa divisione – è tra coloro che sanno sempre di essere dalla parte giusta della storia e quelli che guardano dalla finestra. Tormentati. Tra chi giustamente si batte per il lavoro per tutti per i diritti, per la sicurezza, per l’equa retribuzione. Un lavoro che è cambiato, qualcuno addirittura che lo da per “finito” (Rifkin, già nel 1995), e che invece drammaticamente oggi ripropone tutta la sua fondamentale importanza non solo per il sostentamento dell’uomo, ma proprio perché è dignità fondamentale per la persona. Nessun reddito garantito potrà surrogare questo elemento fondante.

Gli altri, dicevamo, quelli alla finestra, sono quelli nati negli anni dei passaggi. Quelli che “studia, sennò ti tocca fare l’operario”, quasi fosse una punizione. Quelli che non hanno vissuto la Milano da bere, la scala mobile e le assunzioni a raffica nelle pubbliche amministrazione. Quelli che hanno iniziato a lavorare quando il lavoro, quello vero, nel nostro paese era al crepuscolo. Poi ci ha pensato Al Quaeda a far capire che era cambiata aria. Poco dopo, venne Marco Biagi (trucidato davanti casa sua nella festa del Papà da due infami) e i suoi contratti a progetto. Uno stile generazionale, perlopiù dimenticato. Uno stile fatto di precariato, di preghiere, di sarcasmo e di tanto, tanto fatalismo. Negli anni le cose sono migliorate (o forse no); il sogno del mondo globale si stava realizzando, molti sono anche partiti per cercar miglior fortuna. Già, perché mentre l’intero mondo galoppava, noi camminavamo, lentamente. Inchiodati tra contrattini ai limiti della legge, precariato,  stipendi sempre meno allettanti, ormai svaniva definitivamente il sogno del posto fisso e del culo al caldo in ufficio. E col tempo se ne sono andate anche le grandi, grandissime imprese, spacchettate e intestate a qualche fondo d’investimento domiciliato chissà dove. E con paura, a volte con rassegnazione, abbiamo letto dei presidi di operai, delle chiusure, dei licenziamenti. Ci sembrava il peggio. E invece no, ecco che ci mancava l’epidemia, che preannuncia il dramma che ci aspetta nei prossimi mesi. E quindi? Cosa diavolo c’è da festeggiare oggi? Oggi festeggiamo tutti coloro, tanti di quelli che erano alla finestra, che non sapevano e non sanno se sono dalla parte giusta oppure no, che da domani, senza bisogno di palcoscenici, comizi o pulpiti, difficilmente rappresentati si guarderanno allo specchio e proveranno a ricominciare. Con più forza, più sarcasmo e fatalismo. E tanta, tanta speranza.