Il gruppo scultoreo, custodito nella chiesa di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia è lavoro di metà ‘400 del capostipite dei Della Robbia

DI ELIANA PRINCI

A osservare la Visitazione, opera che Luca della Robbia realizza nel 1445 per la chiesa di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia, avvertiamo la stessa domanda che Elisabetta rivolge a Maria: «A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?». È il Vangelo di Luca che ci racconta la “visitazione”, il titolo con cui, nella storia dell’arte, si indica l’incontro tra una giovane Maria in attesa di Gesù, e Elisabetta, già anziana, ma incinta per opera dello Spirito Santo. Seguiamo il racconto dell’evangelista: Maria si mette in viaggio, va di fretta perché il viaggio è lungo, da Nazareth che è a nord, verso una città poco prima di Gerusalemme, a sud, va in aiuto alla cugina che è affaticata per la gravidanza. Maria arriva a destinazione, entra nella casa di Zaccaria e Elisabetta, le due donne si salutano: il bambino, nella pancia della cugina, risponde al saluto con un sobbalzo, percepisce, forse prima della madre, una potenza straordinaria e Elisabetta dà voce, anzi dà “gran voce” allo Spirito, esclamando: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo». Benvenuta Maria! La storia evangelica diventa scultura nell’opera di Luca della Robbia che riesce a tradurre nella terracotta invetriata i sentimenti, i moti dell’animo del racconto. Vediamo quindi due donne, una in piedi che si china ad accogliere l’altra, visibilmente più anziana, rugosa, affaticata. La scultura è prima di tutto un abbraccio, due figure che si saldano, è il sigillo di un incontro emotivo oltre che fisico. Le braccia nelle braccia, gli occhi negli occhi: lo scultore ci descrive questa intensa umanità, il calore di un gesto antico che oggi acquisisce un significato rinnovato. Eppure sono due presenze luminose, come fiaccole che rischiarano la penombra della chiesa romanica, possiamo anzi recuperare la condizione di visione che un fedele otteneva entrando in San Giovanni Fuorcivitas a metà Quattrocento, una visione non accesa dagli interruttori elettrici moderni, ma confortata dal riverbero irregolare dei lumi di candela: in questo modo le sculture acquisivano vita, corpo, si animavano in un lungo affettuoso saluto. Armoniosa, consolatoria, facile da capire, la scultura robbiana interpretava un mondo di affetti domestici vicini ai sentimenti di ogni fedele, un linguaggio di luce che ancora oggi torna a parlarci di invito all’incontro, all’ascolto, alla reciproca accoglienza, mentre insistente si ripropone un interrogativo più grande che si volge in gratitudine: «A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?».