di Ugo Feraci

Così è arrivata la fase 2. O meglio, arriva domani, ma stasera già si sente la differenza. E imbocco le strade del centro per riprendere confidenza con la città, tentando di vincere il disagio sottile di chi si sente fuori dalle regole nel fare una camminata senza l’autocertificazione in tasca. Ma è caldo, è domenica sera, c’è aria di libertà.

Giù dietro il Globo, per quelle strade vuote sempre e comunque costeggio il vecchio stabile delle crocifissine e incrocio una vecchia porta divelta, ancora agganciata a stento al muro, segnalata da un nastro rosso e bianco che invita a curiosare piuttosto che a scansarsi. Apre a un grande ambiente vuoto, colmo di polvere e sporcizia decennale. «È proprio un gran sudiciume» commenta il cittadino della domenica, uno di quella razza che i giorni di festa fa i lavoretti fatti bene, della specie di quelli che, per via degli occhiali, sono anche un po’ intellettuali, uno degli esemplari che indossano la camicia buona ma con le maniche rimboccate per dire quanto la sanno lunga. «Gliel’ho detto al Comune. Son venuti e questo è il risultato». Poi scompare dietro l’angolo impegnato a buttar via le inutili cose che accumula la vita. Ma dietro l’uscio sgangherato un fruscio lento e sordo rivela un piccione malandato, con una corona di penne spelate in testa, che ti fissa con una pena assoluta.

Più avanti sul corso vuoto di macchine e solcato da famigliole in bicicletta il sole batte sull’asfalto. Già, è arrivato il caldo e mentre stavamo rintanati in casa fuori il sole ha cominciato a bruciare e le giornate tardano a spegnersi. Tra le mura e sui terrazzi la natura verdeggia. La primavera è inoltrata e nel suo prepotente divenire senza troppi discorsi assale le strade e le case di ombre e frescure nuove. Sul davanzale di una vecchia finestra spalancata ancora un pennuto. Fermo immobile ad ali spiegate, con l’occhio sbarrato e il becco aperto per una muta preghiera. È un rondone ed è morto sulla soglia della finestra di una casa arredata, ma vuota e lurida. Davanti, a due passi, un vecchio tabernacolo con un cero spento e fiori polverosi dietro una grata. In un vecchio quadretto il vetro opaco dal tempo e dallo sporco non lascia intravedere più nulla. Sono rimaste le preghiere ma si è dimenticato a chi rivolgerle.

In via Laudesi l’occhio cade nella vetrina di un ufficio ormai chiuso. «L’Italia che lavora» recita il titolo di un libro dimenticato su un tavolo, e accanto, scolorite dal sole, stelle filanti di chissà quale carnevale, srotolate dalla sedia fino a terra, sperse sul pavimento anche più avanti.

Strana la città della ripresa, non più sospesa, ma nuda con le sue pene e i suoi guai. Eppure è primavera e la flora urbana verdeggia, abbraccia le cose, lenta ma inesorabile ricopre pietosa anche i relitti di un tempo, come l’abbocco di un vecchio rifugio aereo, via di fuga impraticabile, dimenticata in un angolo di un giardino e di chi sa quale inconscio.

Poi c’è la piazza con il brulicare di figlioli in bicicletta e di corsa dietro un pallone, giovanotti tirati e fanciulle in libertà, padri e madri storditi dalla quarantena che hanno sciolto la prole per strada. «Bianca, – ammonisce alla sua comare una di queste creaturine che ribollono di vita– dobbiamo raggruppare un esercito di amici». Ha la serietà di chi proferisce una verità assoluta, ma nella libertà strepitosa di chi è comunque consapevole di stare giocando. Di rincorsa dietro a un pallone, accaldati e contenti di ritrovarsi per strada hanno in testa giochi inesauribili, una vita da vivere fino in fondo e accogliere come se non ci fosse un domani. Hanno ormai la città in pugno. Che però giace inerte, con i suoi vuoti e le sue miserie, che più non ricorda cosa doveva andare bene. Perché nonostante le mascherine indosso il pericolo più grande non è per le strade, non fuori, ma dentro.