Quel che non si può fare a meno di sapere sul culto di san Jacopo In dialogo con don Luca Carlesi arciprete della Cattedrale

DI UGO FERACI

Nel 2020 segnato dalla pandemia coronavirus e nell’età post–moderna della secolarizzazione diffusa, che valore assume la festa del santo patrono?

Occasione di folklore o di trovate enogastronomiche? È pur vero, bisogna riconoscerlo fin da subito, che non c’è festa senza pietanze. Un tempo l’affluenza per la ricorrenza era così larga che «molte volte – annota Jacopo Maria Fioravanti nel 1758 – per supplire al mantenimento di tanta gente conveniva ai Cittadini per mancanza di pane, fare spianare quantità grande di maccheroni».

Ancora il Fioravanti, nelle sue Memorie storiche della città di Pistoia, ricorda che parte dello splendore della festa era dato da quella «Fiera di varia sorta mercanzia» antesignana del mercato che a Pistoia (polemiche incluse) resta tra le istituzioni più care ai cittadini. È chiaro però, che nemmeno i maccheroni sull’anatra bastano a esaurire il senso di questa solennità. Quel mantello rosso messo sulla statua, infatti, aggancia più la storia che la leggenda. Quest’anno, peraltro, al termine dalla vestizione, il bavero ribaltato sul volto dell’apostolo per una folata di vento ha ricordato a molti la mascherina anti-Covid ormai icona di una stagione. «Il mantello, storicamente parlando, – spiega don Luca Carlesi, arciprete della Cattedrale – è un segnale di inizio della festa, ma nel coloro rosso, porta anche il ricordo del sangue versato nel martirio». San Giacomo, apostolo molto amico di Gesù, fu infatti ucciso «di spada» per volere di Re Erode (Atti 12,1-2), dunque il mantello racconta amicizia e testimonianza fino alla morte.

«Quando però si sono persi un po’ i significati originari – conclude don Carlesi – il popolo è intervenuto con una spiegazione differente; ecco allora il detto popolareche ha addirittura trasformato san Jacopo in un debitore insolvente». D’altra parte a Pistoia, ammette l’arciprete, «dal punto di vista devozionale non c’è una grande venerazione della reliquia. Durante il tempo della novena cresce l’attenzione, ma il culto chiede di essere costantamente rivatilizzato. Molto ha influito la demolizione dell’antica cappella di San Jacopo, un tempo collocata all’ingresso della navata destra della Cattedrale. L’altare e la reliquia sono stati praticamente recuperati nel dopoguerra, quindi la grande discontinuità è avvenuta nel 1785 al tempo di Scipione de’ Ricci, fautore della sciagurata demolizione. È vero però – aggiunge don Luca – che ormai nel Settecento la pratica del pellegrinaggio si era anche un po’ esaurita. Non a caso fu proprio allora che ha preso campo un’altra festa popolare, oggi molto sentita, quella di San Bartolomeo». C’è il mantello, dunque, segno evidente dei festeggiamenti, ma soprattutto la “presenza” dell’apostolo, cioè la reliquia fatta arrivare in città dal vescovo Atto nel 1145. «Questo è il vero “tesoro” – spiega don Luca –, non soltanto il suo involucro del Ghiberti o l’altare d’argento, quanto il piccolo frammento di osso che ci riporta direttamente al Giacomo storico, all’apostolo amico di Gesù Cristo». Il culto delle reliquie sembra quasi urtare una certa sensibilità contemporanea, così avvezza ad allontare la morte e ciò che la ricorda. La reliquia però non celebra la morte, ma una santità che la supera nella vita nuova in Cristo. «La reliquia – continua don Carlesi – è il legame vivo con Cristo, esprime il riferimento diretto non con un mito o con un’idea ma con una persona in carne ed ossa». La presenza della reliquia inoltre, ci aiuta a riflettere su quale fondamento possa essere costruita una città. «Al suo arrivo Pistoia si trasforma, quindi l’intuizione del vescovo Atto è formidabile. Su quella reliquia si ricompongono le fratture tra società civile e Chiesa, tra comune e vescovo, ed è nella collaborazione per il bene comune che fiorisce una città. La reliquia ci rimanda alla storia e alla concretezza della fede, che non è un sentimento, non è per se stessa ma è per il mondo».

Quest’anno, viste le difficoltà vissute e scaturite dalla pandemia, l’orizzonte cittadino della festa è forse ancora più sentito.

«Celebreremo il patrono in tono dimesso – continua don Luca – ma forse anche più vero degli anni passati. C’è anche bisogno di festa, non tanto per non pensare ai problemi che ci toccano, quanto per recuperare uno sguardo sulla storia. Cosa ha da dirci questa pandemia? Non ci sollecita forse a riscoprire una solidarietà rinnovata che vada oltre il momento contingente? Il legame attraverso la reliquia è un filo che percorre i secoli, tiene una città e le sue generazioni, tocca tutta la nostra vita e ci invita a non essere uomini di un momento, uomini del lockdown, della crisi o della ripresa, soltanto uomini di un istante. La reliquia ci parla di perseveranza in certi valori che chiedono di essere continuamente celebrati e ricordati».