Le tante verità di un periodo che ha sconvolto la vita di tutti Dentro le realtà più deboli, tra le pieghe di un sistema che non sempre ha retto

DI MICHAEL CANTARELLA

Una corsa contro il tempo, una lotta che in alcuni casi è sembrata quasi essere impari. «Chi ha contratto il Sars–Cov–2 è stato sottoposto a trattamenti e a percorsi piuttosto strutturati. Per coloro che non hanno la possibilità di rientrare a domicilio ed effettuare isolamento, sono stati attivati i necessari percorsi, in primis gli alberghi sanitari o strutture residenziali dedicate ai malati di Covid–19». A raccontarci cosa è stato il tempo del lockdown e soprattutto qual è stato il suo impatto nelle famiglie è Valentina Raimondo, un’operatrice dell’Asl e membro di Azione Cattolica. «A parte il primissimo periodo – afferma – è stato difficile che una persona avesse necessità dell’assistente sociale sia ospedaliera che del territorio per affrontare il percorso post ospedaliero. Per quanto riguarda i positivi al virus – continua – la nostra funzione è stata essenzialmente di ascolto e monitoraggio, poiché non c’era necessità di ricerca di soluzioni post ospedaliere. Siamo stati molto impegnati anche per l’ascolto e il sostegno ai familiari che per molti giorni non hanno visto e sentito i propri cari ricoverati in ospedale». «Le problematiche di sostegno e di intervento – afferma ancora Raimondo – sono state maggiormente legate a tutte quelle persone, minori, disabili, anziani e adulti non affette da Covid–19 che venivano

ricoverate in ospedale, oppure stando a casa, avevano delle problematiche socio–sanitarie, e per le quali è stato veramente difficile strutturare un progetto assistenziale personalizzato in quanto improvvisamente il Welfare è stato congelato. Mentre nella prassi è solitamente possibile attivare varie forme di assistenza, durante la pandemia tutto questo è stato inaccessibile. Una grande corsa, dicevamo, che lascia strascichi anche nella vita personale: «Se mi guardo indietro mi sembra di aver affrontato un’intera catena montuosa. È stato un periodo faticoso e lavorativamente molto intenso, anche in termini di ore lavorative lo è tuttora. Le difficoltà sono state professionali, ma anche personali e di gestione familiare.

A differenza di altre professioni che hanno compiti e mansioni più standardizzate, la funzione di un assistente sociale è costruire in autonomia tecnico professionale un progetto adeguato per la persona in base alla diagnosi socio– sanitaria e alla gamma di offerta di servizi privati convenzionati e pubblici presenti nel nostro territorio o nella nostra Regione. Nel momento in cui questa offerta è venuta a mancare o risultava inaccessibile e impraticabile per garantire un sistema di sicurezza al propagarsi del virus, è stato quasi impossibile rispondere ai bisogni della persona. Ogni mattina mi alzavo dal letto e non

sapevo cosa mi aspettava, quali fossero le indicazioni perché variavano continuamente. Ho passato intere giornate al telefono a cercare soluzioni e a capire come mi dovevo muovere. Se pur in maniera minore, ad oggi è tutt’ora così. Inoltre il contatto diretto con le persone non era praticabile per la sicurezza di tutti, per cui abbiamo dovuto rivedere i nostri strumenti professionali quali il colloquio diretto con la persona e la visita domiciliare, perdendo tutte quelle prerogative importanti per la relazione di aiuto e che ci sono utili per ascoltare a aiutare in maniera autentica. Talvolta mi sono domandata – conclude – se con situazioni familiari tragiche soprattutto legate all’assenza di supporti per le persone malate non affette da Covid, i nostri cittadini si siano in qualche modo arresi all’idea dell’assenza di Welfare e di uno stato realmente rispondente in termini di politiche sociali e socio– sanitari ai bisogni delle persone; oppure se questa esperienza di maxi emergenza sanitaria ci ha un po’ insegnato a saper aspettare, a contemplare, a pregare e sperare e talvolta mettersi in gioco per primi senza pretendere risposte esterne preconfezionate».