di Francesco Cianci

Attraverso i secoli fra trascendenza e testi filosofici la contemplazione avvicina l’uomo a Dio

Scorgendo tra le tracce dell’antichità, non vi è tradizione religiosa che non celebri o inneggi l’eterno canto alla natura. Scriveva, a tal proposito, lo storico delle religioni Mircea Eliade nella sua celebre opera Il sacro e il profano, per l’homo religiosus «la natura non è mai esclusivamente “naturale”, ma sempre ricca di significato religioso».

Eventi come il sorgere o il tramontare del sole che precede l’avvento delle tenebre nella notte, l’eruttare impetuoso di un vulcano, l’alternarsi dei cicli lunari o delle maree e così via discorrendo, non sono fatti secondari nell’immaginario dell’uomo dell’antichità ma vengono interpretati come segni inconfutabili della presenza del divino nel mondo, al punto che il filosofo Marco Aurelio, sulla scia del Physeos – un inno della religione orfica dell’antica Grecia che celebrava la natura come «padre e madre di tutto» – giunse ad affermare senza mezzi termini la sua potenza creatrice quando canta: «Oh natura! Da te viene ogni cosa». In quest’aurea di misticismo, di cui sono intrise le tradizioni religiose dell’antichità, la natura, nella sua totalità o nei suoi singoli elementi, viene personificata in divinità sacre e l’uomo religioso delle origini invoca e celebra le incontrollabili forze naturali nel prodigioso tentativo di rabbonirle, tessendo mistiche preghiere che si innalzano al cielo a mo’ di un canto di lode.

Anche per l’uomo religioso ebraico la natura è oggetto di contemplazione divina. Non sono pochi i passi biblici in cui si scorgono i frequenti richiami alle meraviglie del creato. Ciononostante il fine ultimo degli autori sacri non è quello di divinizzare la natura, quanto piuttosto quello di lodare Dio, riconoscendo allo stesso l’opera della creazione e il primato su ogni cosa. Un’evidenza, quest’ultima, espressa fin dal primo versetto della Genesi, ove l’anonimo autore sacerdotale afferma in maniera lapidaria che «in principio Dio creò il cielo e la terra» (1,1), a cui fa eco, nel solco della tradizione neotestamentaria, l’autore dell’Apocalisse quando attesta, a mo’ di epilogo, la verità ultima della rivelazione: «Tu solo sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono» (4, 11). D’altronde, come ricorda il padre della Chiesa siriaca Isacco di Ninive «tutte le cose sono state create per annunciare la gloria di Dio e cantare la sua lode».

In questo quadro teorico, nel quale si scorge il profondo capovolgimento teologico della cultura biblica rispetto alle tradizioni delle religioni naturali del mondo antico, non sono più oggetto di lode gli elementi naturali – definiti dal Salmista «idoli» degli altri popoli (96,7) – ma è la stessa natura creata a lodare il suo creatore. Una lode che si manifesta con tutta la sua maestosità in quello splendido inno cosmico messo in bocca dal profeta Daniele a tre giovanetti ebrei, i quali, condannati da Nabucodonosor ad essere arsi vivi in una fornace ardente, invitano gli elementi naturali a glorificare il Signore in quella preghiera scandita, a mo’ di una ieratica litania, dall’incipit iniziale dell’inno stesso: «benedite, opere tutte del Signore, il Signore» (3, 57). In questa apoteosi del creato orante, che «canta e grida di gioia» (Sal 64, 14) e nel quale si rivela come in una ierofania il Dio creatore, si scorge l’invito per l’uomo ad unirsi all’unisono allo splendido canto della natura e a fare proprie quelle parole del Canticum Creaturarum di san Francesco d’Assisi, che si snocciolano a mo’ di un rosario cantato tra le pieghe ritmate di quel semplice ma significativo ritornello «laudato si’ o mii Signore cum tucte le creature tue». Una lode che, parafrasando le memorie dell’anonimo Pellegrino russo, attesta che ogni cosa esiste per l’uomo a testimonianza dell’amore di Dio per lui. Un divino canto di amore che, come traspare dalle righe dell’evangelista Giovanni nel prologo del suo Vangelo, si è sprigionato in tutta la sua pienezza e bellezza in Cristo Gesù, il Verbo di Dio fatto carne (14, 1), a cui gli eletti del Signore «con arpe divine» intoneranno «un canto nuovo» (Ap. 15, 2; 5, 9) quando siederanno nell’angelico coro della Gerusalemme celeste.