È all’insegna della “divinizzazione” è iniziato l’anno di approfondimento della scuola diocesana di teologia. Un tema attuale che apre al dibattito

di Beatrice Iacopini

Da un libro prende avvio il quarto anno della scuola di teologia diocesana, in memoria del suo fondatore, don Giordano Frosini, che ne è stato anche l’anima fino alla morte: si tratta dell’ultima sua opera, uscita postuma, scritta con Andrea Vaccaro (G. Frosini-A. Vaccaro, Admirabile Commercium. La divinizzazione nei Padri della Chiesa, Le Lettere 2020), e dedicata ad un tema centrale eppure piuttosto negletto, decisamente impegnativo non per una sua intrinseca difficoltà, ma piuttosto perché solleva interrogativi ed apre a profondità a cui, onestamente, il popolo cristiano non è abituato. Ridotto il Vangelo a morale, si è perlopiù smarrito il senso del mistero, e della contemplazione del mistero, con le vertigini e i turbamenti che ciò può comportare. È anche questo il motivo per cui il linguaggio della divinizzazione, che i Padri all’unanimità scelsero per comunicare il lieto annuncio della salvezza, suona oggi così poco familiare, addirittura pericoloso, mentre loro non ebbero alcuna remora a spalancare alle comunità di cui erano pastori la prospettiva di «divenire dèi».

In ciò consiste l’evangelo, ci dicono quei grandi teologi, che «Dio si è fatto uomo perché l’uomo sia fatto Dio». Ovvero che l’Incarnazione è venuta a realizzare nell’uomo quell’essere pienamente immagine e somiglianza di Dio cui il creatore l’aveva destinato e che la ribellione aveva in parte infangato. L’aspirazione più profonda dell’uomo di sempre, cioè, non è un vano e impossibile desiderio: l’uomo è fatto di eternità, nutre dunque un’aspirazione alla vita, all’amore e alla libertà assoluti che non sarà frustrata, ma realizzata dall’amore di Dio. Ce lo ricorda la nostra liturgia natalizia, quando recita: «O meraviglioso scambio (admirabile commercium)! Il Creatore ha preso un’anima e un corpo, è nato da una vergine; fatto uomo senza opera d’uomo, ci dona la sua divinità».

In tempi in cui l’uomo occidentale sembra aver perso il coraggio di sperare in una vita dopo la morte e in cui il desiderio di infinito si è tramutato nella sua parodia materialistica (divenendo aspirazione ai beni materiali e al mero prolungamento senza fine della vita terrena), ben altra prospettiva spalanca l’annuncio della divinizzazione: non solo promette una pienezza raggiungibile dopo la morte, ma anche indica – e questo è il dato forse più suggestivo – che già qui ed ora è possibile all’uomo vivere e sviluppare i semi della sua natura divina, cogliendo già le primizie di una vita a tutto tondo, integrata e armonica, in cui la morte può essere sconfitta ogni giorno da un vivere che è immerso nell’assoluto (non è questa la vita di grazia?). Ne sono testimoni concreti i mistici di ogni tempo, che questa dimensione hanno potuto vivere nel loro tempo terreno; don Divo Barsotti, il grande mistico toscano dei nostri giorni, individuava proprio nella divinizzazione il fine di tutta quanta la creazione e la migliore sintesi della vita cristiana.

La prospettiva della divinizzazione è d’altra parte anche un incessante richiamo ai cristiani ad essere se stessi fino in fondo, recipienti e testimoni della grazia, secondo il terribile richiamo di Angelo Silesio: «Fiorisci, gelido cristiano, maggio è alla porta: rimarrai sempre morto, se non fiorisci ora e qui». A giudicare dal successo in termini di iscrizioni della proposta di approfondimento offerta dalla scuola di teologia, forse hanno ragione, dunque, Frosini e Vaccaro a scommettere sul linguaggio patristico in quanto più capace di parlare all’uomo di oggi di quello che si esprime nei termini tradizionali di peccato, salvezza dal peccato, redenzione e via dicendo: non solo arriva di più perché si fa portatore di un’antropologia positiva, umanistica, ma anche perché legge la presenza nel mondo come la dimensione della realizzazione della gioia piena, senza rimandarla solo ad un aldilà in cui oggi si è difficilmente disposti a credere fermamente. Recuperando l’antico annuncio della divinizzazione dell’uomo si mostra che all’interno del cristianesimo è ben presente quel che molti oggi cercano nelle religioni orientali, ovvero la possibilità di avvicinarci alla realizzazione della profonda verità dell’uomo nella concretezza del vivere quotidiano.

Certo, non sono poche le questioni già emerse durante le prime due lezioni, tra cui la portata veritativa delle altre religioni, il rapporto tra resurrezione del corpo e immortalità dell’anima; ma soprattutto gli “alunni” del corso hanno messo in rapporto il tema con l’attuale pandemia. Per esempio Claudia: «in questo tempo di paura, la divinizzazione fa uscire dalla massa, ridà per così dire una identità, una unicità a ciascuno; credo potrebbe essere un ritorno alle origini, sia come cammino personale che comunitario, se tutto questo entrasse nelle nostre parrocchie, nelle nostre associazioni e nel contesto sociale nel quale operiamo».

Sarebbe interessante il dibattito uscisse dall’aula virtuale del corso e se ne avessero poi echi sulle pagine di questo giornale!

Chi lo desiderasse può scrivere a: lavita@diocesipistoia.it