di Francesco Cianci

Nel suggestivo teatro che è la natura, il cielo stellato ha sempre avuto un posto di riguardo per l’uomo. Lo sapeva fin troppo bene il vecchio Talete, il padre della filosofia greca, il quale – come ricorda Platone – mentre era intento a studiare il cielo, cadde in un pozzo tra le risate di scherno della sua serva. D’altronde la notte è ispiratrice: ci sono, infatti, notti stellate come quelle impastate di colori da pittori quali Edvard Munch, Vincent Van Gogh e Marc Chagall o notti silenziose come quelle che canta Khalil Gibran dove «le alte stelle serbano i misteri» e che fanno sciogliere i pensieri d’amore in alchemici versi poetici.

Eppure, quell’immenso palcoscenico che è il cielo notturno, dove le stelle sembrano danzare intorno alla luna, non è solo una tela di emozioni estetiche dove pittori, poeti e pensatori hanno dato sfogo alle loro ispirazioni, né tantomeno una semplice entità fisica che ha affascinato astronomi e scienziati di ogni genere, ma esprime anche una realtà rivelatrice, al punto che il poeta del Salmo, scrutando in alto quelle miriadi di stelle che tessono, a mo’ di filatrici sulla nuvola del telaio, la trama della Via Lattea, non può fare altro che esclamare: «Quando guardo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato che cos’è l’uomo perché di lui te ne ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (8,4-5). Parole, quelle del salmista, che esprimono con tutto il loro pathos le domande esistenziali di ogni uomo e che trovano un’eco in quel capolavoro di Giacomo Leopardi che è il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, quando il poeta dell’Infinito declina i seguenti versi ammantati di diafana luce: «E quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? Che vuol dire questa solitudine immensa? Ed io che sono?».

Eppure, l’uomo, dinnanzi a quel sentimento di profondissima quiete che suscita quel meraviglioso ricamo che è la volta celeste, scopre paradossalmente non solo il suo senso di finitudine ma anche un innato desiderio di infinito. È ciò che Giovanni Paolo II ebbe a chiamare la «nostalgia di Dio», che altro non è che quel bisogno di infinito che è disseminato nel cuore di ogni essere umano: d’altronde, come ebbe a scrivere A.-L. Madame de Staël, con parole non meno profane, «il sentimento dell’infinito è il vero attributo dell’anima». Un’anima che mentre contempla quel libro che è l’universo scopre la sua essenza in quel mistero divino che la sovrasta, al punto da farle confessare, a mo’ di sant’Agostino, tutto il suo amore: «tardi t’amai bellezza infinita, tardi t’amai bellezza sempre antica e sempre nuova […] tu mi chiamasti e la tua voce infranse la mia sordità, balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità». Una voce, quella della coscienza, che, vibrando come una corda di violino nella notte, risuona come un’eco nel cuore dell’uomo e che lo conduce ad aprire gli occhi alla bellezza che solo Dio sa suscitare.

Una bellezza, che, tuttavia, non è solo estetica ma anche morale e che si manifesta con tutto il suo splendore intorno al concetto di ordine, che gli uomini – come ha scritto Aristotele – compresero proprio a partire dal movimento degli astri nella volta del cielo. Un’idea, quella di ordine, che, muovendosi ben oltre le soli leggi fisiche della natura, esprime anche quella legge morale naturale tracciata da Dio fin dalla creazione. Non a caso l’autore del primo capitolo di Genesi, al termine di ogni opera che si snoda intorno alla simbolica settimana creativa, mette in bocca a Dio il vocabolo ebraico tôb, che nel linguaggio biblico non esprime il solo valore estetico della creazione né tantomeno il senso pratico conforme al suo scopo, ma che demanda soprattutto al senso morale, tant’è che a tale vocabolo gli si può rendere il significato di “buono, bene, giusto”. Una legge morale che, seppur l’uomo ebbe a violare nella genesiaca disubbidienza di Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden, è, tuttavia, scritta come una specie di grammatica universale nel cuore di ogni uomo e di cui il comandamento gesuano dell’amore costituisce la somma espressione e il compimento della legge rivelata sul Sinai. Ed è ricordando questa somma legge morale che il filosofo tedesco Immanuel Kant, nel tentativo di coniugare l’armonia dell’universo con quella interiore dell’uomo, ebbe a scrivere con fare poetico: «il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me».

Alla luce di questa cornice morale che sovrasta la realtà sensoriale, le stelle inducono non solo a desiderare ma anche a considerare: d’altronde, sotto un profilo etimologico, entrambi i verbi affondano le loro radici nel latino siderare, da sidus, plurale di sidera “astro, costellazione, stella”. Ma se desiderare vuol dire testualmente “mancanza di stelle”, quindi “anelare con affetto a qualcosa che ci manca”, considerare significa letteralmente “stare sotto le stelle”, vale a dire “fissare con gli occhi della mente e del cuore qualche cosa”: usando un eufemismo si potrebbe dire “stare con Dio”. Probabilmente è per questa ragione che l’uomo viandante si ferma a contemplare sotto le stelle e a desiderare il cielo, l’ultima meta del suo andare: in fondo – diceva Novalis – «nulla è più raggiungibile per lo spirito che l’Infinito»