La solennità di Pentecoste spinge a una riflessione sulla fede in un tempo che mette alla prova

di Edi Natali

Mentre gli apostoli erano insieme, impauriti e disorientati, irrompe un vento che non ha niente di terreno ma è un vento di vita eterna (cfr. Ez 37,9). Questo vento, oggi, continua a spirare ma non ci trova riuniti nello stesso modo in cui lo erano gli apostoli, che era un modo conviviale che permetteva loro di stare accanto: la pandemia ci tiene, anche se compresenti, distanziati, chiusi spesso nelle nostre vite e nelle nostre paure. Eppure è ancora attraverso questo Spirito donato che respiriamo l’alito di Dio anche se non sempre siamo capaci di sentirlo, di riconoscerlo; per questo spesso siamo angosciati, rattristati e non sentiamo la liberazione che questo dono offre. Non ci siamo lasciati alle spalle un mondo incentrato sulla forza e sul bisogno di sicurezza, in nome delle quali si continua a combattere guerre, a opprimere interi popoli, ad opprimere persone, a distruggere l’ambiente. Al tempo stesso esorcizziamo dolore, morte e fragilità in nome dell’efficienza e della ricerca della felicità individuale. La pandemia, dicemmo appena ne fummo travolti, ci avrebbe dato la possibilità di cambiare e di cogliere l’essenziale, nei rapporti con i familiari, con gli amici, con il pianeta… avremmo potuto cambiarli, questi rapporti, e non più tornare alla vita di prima, dato che poiché la pandemia ci ha fatto sperimentare la precarietà, la fragilità, il senso della morte. Ma se la storia è maestra, l’uomo è un pessimo allievo, poco disposto ad imparare! Anzi, in nome del potere e di interessi economici e di certezze che poco hanno a che fare con la verità, non comprende che nessuno di noi è mai del tutto al riparo dal dolore, la cui astuzia – per usare un’espressione di Jünger – fa sì che questo riesca a far valere le proprie pretese, anche se lo si vuole bandire dalle nostre vite.


Dopo un primo momento in cui ci aveva apparentemente resi tutti solidali con tutti, la pandemia ha finito per esasperare la tendenza già presente nella società dell’individualismo: ognuno è focalizzato sulla sopravvivenza e sulla difesa di se stesso e delle proprie libertà, sul voler ritornare alla vita ‘di prima’, come se questo prima fosse uno stato edenico. Non siamo una comunità.

La Chiesa, d’altra parte, anche in questo periodo ci richiama alla relazione, ad uscire dal proprio isolamento per gettare ponti verso l’altro; e anche se la relazione perde di corporeità, in essa si vive comunque l’incontro con l’altro. Del resto le relazioni non corporali per il cristiano sono qualcosa di conosciuto, basti pensare alla fede nella comunione dei santi. In questa fatica della distanza a cui la pandemia ci obbliga, il cristiano ha una chance, quella di ricevere e accogliere lo Spirito Santo, come dono a noi elargito nel giorno di Pentecoste, come quel vento, il solo, capace di trasfigurare gli uomini, la storia e il creato. Su questa parola ‘trasfigurare’ occorre porre l’attenzione: essa non indica un risanare palliativo anestetizzante ma un rendere realtà nuova ciò che siamo e ciò che ci circonda attraverso i doni dello Spirito Santo.

Il punto è vedere se davvero i cristiani sono capaci di credere nella potenza di trasfigurazione di questo vento trinitario. Sono davvero pronti a credere che Dio può fare prodigi nel cielo e sulla terra, che può trasformare il sole in tenebra e la luna in sangue e che chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato? Non credo che sia su un’indagine sociologica né su un’analisi teoretica che si giochi il destino del cristiano e della Chiesa, quanto piuttosto su questa sfida lanciata dalla fede a credere nonostante tutto. Ed è in questa fede allora, che le relazioni prendono una loro forma nuova e trovano un loro posto anche nel cuore dell’essere umano. Relazioni, queste, che pur sentendo la fatica e il peso della distanza, rimangono solide perché incardinate in Cristo.

Certo è che il cristiano, nel desiderare oggi un ritorno alla normalità, non può intenderlo come ritorno alla vita di prima; l’annuncio di Pentecoste può in questo spronare: «essi furono tutti ripieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi». Lo Spirito spinge dunque a parlare una lingua ‘altra’. In che senso? Parlare un’altra lingua comporta sempre una difficoltà, richiede una traduzione anche culturale, un uscire dal proprio schema mentale se si vuole davvero entrare in dialogo con l’altro. Il contenuto di questa nuova lingua con cui i cristiani e la stessa Chiesa dovrebbero esprimersi è lo Spirito di verità. Uno spirito di verità che non parla da se stesso perché è comunitario e che annuncerà le cose future. Se alla luce delle molte situazioni fallimentari, sia in ambito ecclesiale che sociale, il futuro sembra colorarsi di nero e creare smarrimento e disperazione, nel giorno di Pentecoste, il dono dello Spirito Santo ci comunica una verità; una verità che non è certo da intendere come una sorta di analgesico che attutisce o elimina dolore e sofferenza, poiché ogni volta che il cristiano comunica questo tradisce la serietà della sofferenza presente nel reale, e questo non può che provocare un allontanamento delle persone. Il cristiano deve invece prendere sul serio il dolore, i fallimenti, gli sconforti, e al tempo stesso porli in un orizzonte di speranza. D’altra parte è questo che ha fatto Cristo, prendendo su di sé la croce e discendendo agli Inferi e risorgendo. E questo è proprio il dono dello Spirito Santo.