La relazione del deputato Matic permette di cogliere le posizioni dominanti sui temi più controversi dell’attualità. Presupposti molto diversi rendono difficile il dialogo con la Chiesa cattolica

di Ugo Feraci

Il 21 maggio scorso il deputato croato Predrag Fred Matic ha presentato alla Commissione europea una relazione «sulla situazione della salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti nell’Ue, nel quadro della salute delle donne». Un testo consistente e ricco di riferimenti che non avrà valore di legge ma che, se approvato dal Parlamento europeo, rappresenterà un parere autorevole in materia.

La relazione è stata redatta — illustra il promotore —«perché l’involuzione dei diritti delle donne e il loro regresso stanno guadagnando terreno, contribuendo all’erosione dei diritti acquisiti e mettendo in pericolo la salute delle donne». Diverse le situazioni di oggettiva difficoltà e discriminazione di cui sono fatte oggetto le donne in diverse parti del mondo come anche nei paesi membri dell’Unione che chiedono nette prese di posizione. Il testo però parla anche di molto altro e offre un’estesa e aggiornata panoramica sulle posizioni dominanti circa i temi della vita e dei diritti di genere. Lo fa presentando la dimensione sessuale nell’orizzonte della salute. Opzione condivisibile e di fatto scontata quando ci si trova a dibattere il tema della sessualità in un senso più ampio e generale, sebbene ci si accorga presto che nel testo il concetto di salute sconfini ben oltre la fisiologia, nei territori indefiniti dell’opzione di genere, di un sentire autoreferenziale in cui libertà si declina facilmente con l’arbitrio.

Introdurre termini religiosi o antropologicamente alternativi presenta al legislatore europeo inevitabili difficoltà. Esistono infatti, e purtroppo, consuetudini e prassi lesive della dignità umana, specialmente della donna in alcuni contesti religiosi (mutilazioni genitali, matrimoni forzati o con minori), ma è pur vero che nella relazione sono del tutto assenti anche le dinamiche positive che scaturiscono dalla dimensione religiosa. Lo si vede bene circa il tema della vita nascente, laddove il testo è di fatto del tutto centrato sull’importanza della contraccezione e sul “diritto” all’aborto, in ogni caso mai interessato ai diritti del nascituro. Per questo, ad esempio, tollerare l’obiezione di coscienza in merito alle pratiche abortive diventa problematico. Secondo il documento lo stesso «inviato speciale della Ue per la promozione e la protezione della libertà di religione e credo al di fuori dell’Ue» dovrà essere «attentamente vigilato dal commissario per la Promozione dello stile di vita europeo perché adotti un approccio basato sui diritti umani, rispettando dunque la salute sessuale e riproduttiva e i relativi diritti». Parole condivisibili, ma fino ad un certo punto, almeno cioè, finchè non rischiano di portare ad un più esteso e cogente controllo delle istituzioni su chi la pensa diversamente.

Temi cruciali sono quelli educativi. Il documento, infatti, afferma «la necessità di un pieno accesso a un’educazione completa in materia di sessualità in tutte le scuole primarie e secondarie», «poiché — prosegue la relazione — la cattiva informazione in materia di salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti è sempre più diffusa».

Dove la cattiva informazione è la naturale e originaria apertura alla vita che scaturisce dall’unione dell’uomo con la donna. Difficile prescindere, ad esempio, da una educazione sempre più attenta e aperta agli scenari non binari, per i quali risulta “discriminatorio” pensare che l’impossibilità di una gravidanza possa essere equiparata ad una infertilità, poiché «tale definizione non tiene conto della realtà delle donne lesbiche e bisessuali e delle persone transgender in rapporti di coppia tra persone dello stesso sesso o delle donne sole interessate alle possibilità di concepimento». Non è più facile determinare, in questo scenario, come la natura si relazioni all’umano, al punto che diventa difficile intendersi perfino su ciò che il Concilio indicava come «genuinamente umano».

D’altra parte nel testo non compare mai il termine “embrione”, solo una volta “feto”. Di “vita”, si parla dal parto in poi, a patto che ci si arrivi e sempre in nome del benessere e dei diritti. Nella relazione è riportata parzialmente la definizione proposta dall’Organizzazione mondiale della sanità: «la salute sessuale è uno stato di benessere fisico, emotivo, mentale e sociale legato alla sessualità; non riducibile all’assenza di ma-lattia, disfunzione o infermità», ma la si integra con un’aggiunta proposta nel 2018 dalla Commissione sulla salute e diritti sessuali e riproduttivi guidata dal Guttmacher Institute (New York): «tutte le persone hanno il diritto di prendere decisioni in relazione al loro corpo».

Si profilano, mi sembra, due piste: da una parte una legislazione che postula principii (fondati sull’espressione di diritti), ridefinisce l’umano in una visione prevalentemente monadica perché incentrata sull’individuo (che per chi crede è sempre e primariamente creatura chiamata alla relazione a alla vita divina), in cui il primato spetta all’ampliamento di diritti personali sempre più fondati su basi liquide (al punto da poter essere facilmente orientate e articolate); dall’altra il primato della tecnica, in cui il corpo si presenta come realtà modificabile, per cui il sesso biologico o la stessa possibilità di generare, possono essere manipolate o acquisite artificialmente. Lo scenario, per niente lontano, è quello in cui il figlio diventa un prodotto, il corpo un oggetto, l’identità un’opzione autodeterminata e variabile, maschile e femminile realtà limitate e limitanti.