Sabato 21 novembre si è svolta a Firenze una partecipata giornata di riflessione dedicata al valore della bellezza artistica nel cammino pastorale della Chiesa

«Abbiamo ancora porte della chiesa che danno sulla strada. E strade con la porta della chiesa che chi la spinge, anche se è ateo, si trova di fronte al mistero». L’osservazione, quasi banale se si vuole, la propone Pierangelo Sequeri, il noto teologo esperto di estetica teologica e riecheggia quella del gesuita Christoph Theobald che nel 2019 aveva affermato che «il luogo più importante di una parrocchia non sono i suoi servizi o le sue attività ma la porta. Che deve essere sempre aperta». Allora l’occasione era un primo convegno organizzato dagli uffici comunicazioni sociali e cultura delle diocesi toscane dedicato alle parole chiave (umiltà, disinteresse, beatitudine) del discorso di papa Francesco alla Chiesa in Italia; questa volta, sabato 21 novembre, il contributo di Sequeri apriva un convegno “gemello” ispirato al precedente dal titolo Per una comunità ospitale. L’arte come luogo dell’accoglienza e della ricostruzione. 

Se l’immagine della porta diventa cifra eloquente di una chiesa “ospitale”, “aperta a tutti”, “affacciata sulla strada”, Sequeri ne ha precisato il valore di soglia aperta a un’esperienza spirituale segnata da un coinvolgimento pieno, che passa dagli affetti sensibili per giungere al nocciolo profondo dell’anima. Esperienze, laddove architetti e preti distratti lo consentano, possono condurre «all’incanto », a un «grembo generatore» che non ha nulla di estetizzante e disincarnato. «La prima tentazione del Cristianesimo — ha spiegato Sequeri — è stata quella di ridursi a spiritualità, a diventare gnostica. Abbandonando il corpo, il rito, lo spazio, le cose che si toccano. Il Cristianesimo nascente ha però scelto un’altra via», quella di Paolo e Giovanni, «due grandi teologie del corpo del Signore» che hanno fatto della proposta cristiana una «ospitalità del corpo del Signore». Dopo l’Ascensione Dio non è stato più come prima, il corpo risorto e piagato del Cristo ha trovato posto in cielo; questo ha posto le radici di una sensibilità che è propria del Cristianesimo.

Parlare di sensibilità dunque, non significa restare in superficie, anzi. «L’estetica — ha affermato Sequeri — è una dimensione sostanziale dell’anima. Dove non c’è esperienza estetica ed educazione estetica ci sono parti dell’anima che non si sviluppano». L’arte diventa veicolo fondamentale per la rieducazione dell’anima. Con un’attenzione grave però: quella a non fermarsi «all’estetizzazione del mondo », a ridurre tutto a valori estetici, utilitaristici e libidici, «a coprirli — spiegava Sequeri — con il richiamo facile alla bellezza». Che fare, dunque, per uscire da questo corto circuito che riduce la bellezza — e proprio quella «che per noi è più facilmente avvicinabile al sacro» — al godibile e allo strumentale, cioè a quell’uso disinvolto e diffuso che troviamo magistralmente espresso nella pubblicità?

La contemporaneità ha pensato di rompere questo inganno sottraendo la bellezza all’estetica. «Dobbiamo — domandava Sequeri — diventare per forza fondamentalisti della dissonanza? Della decostruzione? Dobbiamo per forza tagliare tele, mettere orinatoi sul palchetto del museo?» Perché dopo le grandi svolte ed elaborazioni teologiche del Concilio «l’arte contemporanea non riesce ad essere letta teologicamente?». Sequeri evidenzia una frattura che chiede ancora di essere ricomposta, che ha visto spezzare il nesso virtuoso tra l’elaborazione dogmatica, spirituale e quella estetica ed artistica.

«In Europa — commentava il teologo — vendiamo le chiese. Non mi dispiacerebbe se ogni tre, quattro, cinque chiese di una città ce ne fosse una che fosse dedicata alla rieducazione della nostra sensibilità estetica per le parti sensibili dell’anima che secondo il Cristianesimo sono il luogo dell’incontro con Dio». «I sensi — concludeva Sequeri — non sono da superare per arrivare a Dio: sono da frequentare in profondità». Oggi l’estetica può insegnare «a trarre sensi spirituali dal colore, dalla forma, dalle mani, dal gesto dalla danza». Un compito stimolante per una Chiesa in uscita, desiderosa di raccontare «la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto» ( Evangelii Gaudium, 36).

Le Chiese toscane in Convegno

L’evento proposto dalla dalla Commissione per la Pastorale della cultura e delle comunicazioni sociali della Conferenza episcopale toscana ha visto un ampio coinvolgimento di delegati provenienti dalle diverse diocesi toscane. Il convegno si è infatti esteso a tutta la giornata di sabato 21 novembre. La mattinata è stata aperta dall’intervento di Pierangelo Sequeri e seguita dal contributo dell’architetto Mario Botta e dell’artista Giuliano Vangi, che hanno raccontato alcune opere frutto della loro collaborazione, e dall’intervento della giovane artista Giorgia Severi.

Il pomeriggio ha visto la suddivisione delle delegazioni (oltre cento i partecipanti) in otto tavoli di lavoro tematici aperti da una riflessione di mons. Timothy Verdon. Le conclusioni sono poi state affidate al Cardinale Giuseppe Betori che ha anche presieduto la messa conclusiva.

Per la diocesi di Pistoia hanno partecipato don Luca Carlesi, Federico Coppini, Renata Fabbri, don Ugo Feraci, Alessio Biagioni. Hanno collaborato alle riflessioni preparatorie al convegno Eliana Princi, Mariangela Montanari, Lucia Cecchi e Luigi Bardelli. 

Ugo Feraci