Mancano i preti o alla Chiesa manca qualcosa?

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E se la Messa la fa il diacono? Qualche giorno fa un quotidiano locale ha ripreso un post su Facebook in cui si segnalava un fatto accaduto in parrocchia a San Marcello. Alla celebrazione festiva il prete non c’era, lo sostituiva un diacono. In paese il parroco non c’è, al momento la situazione è in transizione, in attesa della nomina di un nuovo pastore; i preti sono pochi, le esigenze molte e allora arrivano i diaconi.

Ora però, quella che si presenta (e che illustra l’articolo sul quotidiano locale) come una soluzione di emergenza in un tempo di crisi della Chiesa e delle vocazioni è, di fatto, una prassi ben consolidata in molte parrocchie della diocesi. Però c’è bisogno di fare un po’ di chiarezza. In primo luogo perché il diacono non celebra la Messa ma la Liturgia della Parola. La prima, prevede la liturgia eucaristica, che è offerta della propria vita nei doni e rendimento di grazie, memoriale della Pasqua del Signore in cui si consacrano il pane e il vino attraverso le stesse parole di Gesù. Nella seconda il diacono, dopo la prima e la seconda lettura proclama il Vangelo, suo compito tradizionale, propone, all’occorrenza una omelia e poi distribuisce l’eucarestia già consacrata. Una Messa “diminuita”, o peggio, una Messa di serie B? Per quanto il rischio di intenderla così, anche in ambito intraecclesiale non sia affatto peregrino, non è questo il modo corretto di intendere la liturgia della Parola. Che invece possiamo leggere come risposta alle esigenze di una comunità che vuole e ha bisogno di celebrare il giorno festivo e dunque si raccoglie attorno alla “presenza” nella Parola e nell’Eucarestia. Il diacono, che può essere sposato o celibe ma non è un laico, bensì un battezzato che ha ricevuto il sacramento dell’ordine, fa semplicemente il diacono.

In altre parti della montagna sono stato chiamato a svolgere servizio pastorale insieme a un diacono. È una bella esperienza, di confronto continuo, ma anche di complementarietà, in cui ognuno porta il dono che gli è proprio. Ho tutto da imparare da lui. C’è una domanda che accompagna spesso il nostro confronto, che ricorre e non trova mai una sola e definitiva risposta. Come servire il popolo a cui siamo inviati? C’è da abilitarlo a vivere pienamente la vita cristiana, o a scoprirla in tutta la sua bellezza, accogliendo la grazia di Dio nei Sacramenti, lasciando esprimere alla Parola tutta la sua forza. Ne siamo convinti, ma le piste per realizzarlo spesso ci sfuggono. Servono altri “ruoli” nella Chiesa? Inventiamo altri ministeri? Votiamo anche i ministri di Dio? Ho l’impressione che le risposte migliori arrivino imparando a conoscersi, ad ascoltarsi, responsabilizzando e scommettendo sull’altro a partire dai suoi doni. Ma questo chiede qualcosa che scarseggia più di ogni vocazione e che pure ne costituisce il fondamento: il tempo dell’incontro e dell’ascolto.

Ugo Feraci