Impressioni e considerazioni provvisorie
sulla città, la diocesi e il clero di Pistoia
a un anno dal mio ingresso
3 dicembre 2015

Premetto che quello che dirò è solo il frutto di prime impressioni e considerazioni, facilmente errate, imprecise o parziali. Succede sempre così; a volte le prime impressioni risultano essere delle vere e proprie intuizioni, altre volte invece sono delle vere e proprie “cantonate”. Ve le offro quindi con molta semplicità, esponendomi volentieri al rischio dell’equivoco perché ne nasca un confronto vero tra di noi. È uno sguardo sommario sulla città e sul suo territorio, sulla diocesi e la vita cristiana, sul clero. Uno sguardo, ci tengo a sottolinearlo, che nasce da amore sincero.

La città e il suo territorio

1.
Dal punto di vista economico, quando sono entrato a Pistoia, ho trovato una situazione abbastanza pesante. Ho trovato anche tante realtà produttive e di valore, questo è vero, ma la crisi si è fatta sentire e ancora insiste, con perdite di lavoro e fenomeni di lavoro nero. Al momento sembrano registrarsi alcuni segnali di ripresa, un po’ qua e un po’ là, ancora però assai incerti. Quando arrivai, nel dicembre scorso, c’era e c’è ancora in parte l’incognita dell’Ansaldo Breda. Si ventilava ciò che poi è accaduto: la vendita da parte di Finmeccanica – una dismissione, quella del comparto trasporti per concentrarsi su altri discutibili settori, che considero una scelta poco felice – e l’acquisto da parte dei giapponesi dell’Hitachi. Allora, il marchio della Breda faceva ancora bella mostra di sé sugli stabilimenti. Ora è stato sostituto da un altro marchio. L’immagine dà il segno evidente dei cambiamenti in atto. Andrà tutto bene? Registro un moderato ottimismo, ma la verifica sul campo è appena iniziata. L’altro pilastro economico è indubbiamente il vivaismo che è una vera eccellenza mondiale ma che ha anch’esso i suoi problemi. Mi pare che le difficoltà in realtà stiano aumentando, in particolare per i molti piccoli imprenditori del settore che non vivono un buon momento. Percepisco dei grossi rischi per il futuro, se non si fa qualcosa. Qualcuno mi dice che si potrebbe essere anche al limite di rottura. Non c’è però nel territorio solo Breda/Hitachi e piante. Sono presenti parecchie attività produttive che un po’ a macchia di leopardo, con imprese di tipo familiare, vanno avanti, reggono seppur con fatica e fanno silenziosa eccellenza. Un discorso particolare andrebbe fatto circa le zone “pratesi” o “fiorentine” del territorio diocesano. Grande criticità – va detto – c’è sicuramente nella montagna pistoiese o nelle montagne sarebbe meglio dire, perché le vallate montane sono per lo meno tre. Tutte accomunate dalla stessa malattia: lo spopolamento, l’abbandono da parte dei giovani e quindi l’invecchiamento della popolazione. Il motivo: la mancanza di prospettive di lavoro. A parte il periodo estivo e un po’ l’isola di Abetone e Doganaccia, nelle mie visite compiute con sistematicità questa estate, parlando e ascoltando, ho visto l’urgenza – davvero l’urgenza – di iniziative, di mobilitazione da parte di tutti specie da parte della politica locale e regionale, da parte del fronte creditizio e di quello delle imprese per ridare possibilità di vita alle giovani generazioni della montagna. A partire dalle infrastrutture come la viabilità. E non può essere affidato tutto e solo al turismo, anche se esso ha un posto rilevante nell’insieme. Se non si farà nulla e non si uniranno le forze, credo che il declino sarà inesorabile e rapido per una montagna che non lo merita perché è bellissima e abitata da gente straordinaria.

2.
La città e in genere il territorio, ho avuto la netta sensazione che sia abitato da gente solida, avveduta, tenace, forte, che non si arrende facilmente. Gente laboriosa e che ha voglia di fare. Un po’ timida forse, sovente divisa al suo interno, magari anche un po’ ripiegata su se stessa, come se non credesse fino in fondo alle grandi potenzialità racchiuse nel proprio animo, nelle proprie idee, nella propria storia e nel proprio valore. Ho percepito però voglia di fare, forse di uscire anche da un certo isolamento e chiusura. Vedo la città che si ingrandisce, si abbellisce, che comincia anche a sognare. È un territorio questo e una popolazione che pur con alcuni suoi limiti, custodisce dentro di sé tesori formidabili, bellezze straordinarie, cultura, intelligenza, arte. Mi sento di dirlo perché non sono pistoiese di nascita e conoscevo ben poco di questa città, che dico essere veramente una città da scoprire, che forse non fa molto per farsi scoprire, ma la cui scoperta procura grandi soddisfazioni. Com’è stato detto acutamente, Pistoia, questa “città rocciosa”, dà molto di più di quello che mostra. Per la verità in questo momento noto – ma può darsi che mi sbagli – un certo fermento, un guardare avanti che fa ben sperare.

3.
Attraverso i miei incontri personali, le udienze e quant’altro, come attraverso i centri si ascolto della Caritas, mi balzano agli occhi parecchi bisogni della popolazione. Ci sono situazioni di povertà economica prima di tutto ma non solo. Più di un utente su due dei centri di ascolto, dice il dossier della Caritas 2015, ammette di vivere in uno stato di deprivazione. Tali situazioni, vissute in modo analogo da italiani e stranieri, coincidono spesso con l’assenza di un reddito o con un livello di reddito insufficiente. Ci sono poi problemi occupazionali e abitativi; i primi coincidono in gran parte con la ricerca di un lavoro, quelli abitativi evidenziano per lo più mancanza di casa, residenze provvisorie, abitazioni precarie/inadeguate. Tra gli italiani risultano non irrisorie anche le situazioni di chi vive vulnerabilità in ambito familiare e affettivo o problemi di salute. Tra gli stranieri, invece, non sono trascurabili le difficoltà strettamente collegate ai processi di integrazione legati all’immigrazione. In ogni caso fra le cause e i fattori scatenanti dei processi d’impoverimento, la mancanza di lavoro continua a giocare un ruolo preponderante. È altrettanto significativo però il fatto che neppure un’occupazione regolare è condizione capace di proteggere dai rischi se è vero che, fra i “nuovi poveri”, l’incremento più significativo infatti ha riguardato soprattutto coloro che un posto di lavoro ce l’hanno. Per quanto riguarda i problemi abitativi, le spese per l’acquisto (ossia per il mutuo) e il mantenimento dell’abitazione (essenzialmente le utenze), magari unite ad un momento di difficoltà lavorativa da parte di uno dei membri adulti della famiglia, possono spingere rapidamente verso le fasce a forte rischio di povertà. Altra problematica che si va evidenziando è quella relativa alla salute. Le persone hanno difficoltà ad accedere alle cure sanitarie perché anche il pagamento del ticket sanitario è diventato uno scoglio difficilmente da superare. Per questo motivo si evita di andare dal proprio medico di famiglia per il timore che vengano loro richieste prescrizioni mediche come analisi o medicine non mutuabili.

Secondo l’Osservatorio Diocesano della Caritas sulle povertà, si rileva un forte aumento di coloro che vivono una situazione di disagio e che si rivolgono alla rete dei nostri centri di ascolto. Si pensi che all’inizio della crisi nel 2008 le persone ascoltate erano 1225 nel 2014 sono state 2300. I contatti, cioè in totale le volte che le persone si sono rivolte ai centri di ascolto, nel 2008 erano 4000 adesso siamo arrivati a 24.000. Gli italiani erano il 28% e adesso sono il 50%. Questi dati che ci fanno capire come la crisi abbia colpito duramente la popolazione pistoiese. Mi si dice anche che il disagio giovanile, con fenomeni di alcolismo e dipendenze varie, sia abbastanza pronunciato. Non ne ho però una percezione diretta.

All’aumentare delle persone che sono colpite dalla crisi mi pare comunque che da parte della popolazione, ci sia ancora voglia di partecipare e di dare aiuto a chi è nel bisogno. Mi sento di dire che Pistoia è aperta sul versante dell’attenzione alle povertà. È una sua importante caratteristica. Ci sono molte cose ancora da fare, da fare meglio e mentalità da cambiare, ma un’attenzione basilare c’è e funziona. Le risposte ai bisogni si tenta di darle, le energie impiegate e le risorse non sono poche. Il problema di Pistoia in genere è semmai la difficoltà di “fare rete”, di costruire alleanze.

La diocesi e la vita cristiana

1.
La prima cosa che mi è balzata agli occhi cominciando a girare la diocesi è la sua variegata composizione territoriale. Non è cosa che riguardi soltanto la Diocesi di Pistoia, ma comunque per noi è un elemento di particolare rilievo e quindi non se ne può non tener conto. Gli ambiti territoriali sono alquanto differenti, mi pare anche per quanto riguarda la partecipazione alla vita della Chiesa e all’esperienza cristiana in genere. L’accentuata diversità territoriale credo debba esser tenuta in grande considerazione dal punto di vista pastorale e quando si tracciano i cammini comuni. La difficoltà più grossa, che è anche comunicativa – e questo oggi è un vero handicap – si verifica col fatto che Pistoia, la città, quindi il centro Diocesi, resta abbastanza estraneo a una buona fetta di popolazione della Diocesi. Più di 60.000 persone risiedono nelle provincie di Prato e Firenze e non sentono e non vivono particolari legami con Pistoia, se non per il vago motivo di appartenere da tempo immemorabile alla stessa Diocesi. Non è poco certamente ma oggi non basta. Le conseguenze di un tale fatto incide negativamente soprattutto sul senso di appartenenza alla Chiesa particolare, sulla partecipazione alle iniziative diocesane, in particolare direi sulla comunicazione diocesana, affidata sostanzialmente soltanto agli “avvisi” dei parroci.

2.
Nella diversità territoriale che caratterizza la Diocesi, un posto particolare lo occupa senz’altro la montagna, o meglio le montagne, come già facevo notare. La situazione delle popolazioni della montagna, è abbastanza preoccupante. Ciò pone un grosso problema pastorale. Tra l’altro le parrocchie, o almeno sedicenti tali sulla carta giuridica, sono tante, i complessi immobiliari parecchi, le risorse economiche alquanto limitate. Si consideri che delle circa 160 parrocchie “ufficiali” della diocesi, più di 40 sono dislocate in montagna per un totale di meno di 20.000 persone, mentre le restanti circa 120 parrocchie raccolgono più di 200.000 persone. Inoltre – e per me non è una cosa buona e credo quindi che dovremo ripensarla – il 90% dei presbiteri impegnati in montagna non è italiano. Solo 4 sono italiani, don Sergio, don Napoleone, don Fini e p.Antonio.

3.
Dal punto di vista della partecipazione alla vita di Chiesa, in generale debbo dire che sono rimasto ben impressionato. Girando, incontrando, ascoltando, non ho visto una chiesa che langue, anzi. Non ho visto una chiesa “residuale”, anzi. Pure in questo caso, il territorio diocesano presenta situazioni diversificate, di maggiore o minor fervore, di maggiore o minore partecipazione. Però, in generale, in quest’anno ho ricavato la sensazione di una chiesa abbastanza viva, in movimento, che c’è e che vive, attraverso l’apporto generoso di tante persone semplici magari, ma operose. Anche i giovani, seppur non molti rispetto alla massa e anche al numero ancora alto dei cresimati – e questo ci deve preoccupare – ci sono. La loro presenza si vede, si sente, dove più dove meno. Sicuramente non è molto organizzata in gruppi giovanili veri e propri, che sono pochi; di giovani però se ne incontra nelle parrocchie! Anche il post cresima, con tutte le sue difficoltà, non è del tutto assente.

Questa ancora buona partecipazione alla vita della chiesa significa anche adesione personale di fede in Gesù morto e risorto, impegno di vita cristiana coerente e testimoniale? Chi può dirlo veramente? A naso, mi verrebbe da dire sostanzialmente di si, perché non può esserci un’appartenenza ecclesiale pura-mente sociologica, coi tempi che corrono. Anche la recente esperienza dell’assemblea sinodale, sinceramente conforta questa valutazione. Però, però… Mi pare che si sbaglierebbe a dare per scontata una fede viva e sostanziosa che permei davvero l’esistenza. L’indifferenza religiosa sembra avanzare, soprattutto tra i giovani, se è vero, com’è vero per es. che i matrimoni sono drasticamente diminuiti e il differenziale tra morti e nascite è sullo zero. Poi resta il problema di coloro – e sono tanti – che hanno abbandonato la vita della chiesa, non ci si riconoscono più oppure mai hanno incontrato veramente l’esperienza cristiana.

Una cosa davvero bella e significativa che caratterizza la diocesi è sicuramente la sensibilità sociale e caritativa. Sono convinto che si possa fare meglio, soprattutto che si possa fare con maggiore e disinteressato spirito di servizio, oltre che concorde, ma è indubbia una sensibilità che fa onore alla chiesa pistoiese. Qualcuno ha parlato di una tradizione di “cristianesimo sociale” e può essere. Devo senz’altro riscontrare un’attenzione ai poveri che segna la nostra chiesa. Dovunque, per tutto il territorio diocesano, le persone e famiglie assistite sono davvero molte, tanto che vien da pensare cosa sarebbe il nostro territorio se venisse a mancare questa fitta rete di solidarietà che in mille rivoli giunge a dare sollievo e conforto.

4.
A fronte di un’indubbia bellezza della nostra Chiesa particolare – ne sono convinto e credo dovremmo esserne tutti convinti per lodare il Signore – almeno ad una prima impressione noto però alcune criticità: tre in particolare. La prima è che mi pare esista una specie di scollamento tra popolo ed élite, chiamiamola così per intenderci. Forse potremmo dire tra “centro diocesi” e “periferia”. Da una parte vedo la gran massa delle persone, il popolo, la gente comune che affolla le nostre chiese, che corre ai santuari mariani, che va a Medjugorje e da Padre Pio, partecipa a gruppi e movimenti particolari, che è attaccata anche a forme tradizionali di religiosità popolare. Dall’altra, un gruppo abbastanza ristretto di persone più preparate, che seguono le vicende della chiesa da un balcone più alto e che hanno un orientamento teologico e spirituale, di stampo decisamente conciliare e post-conciliare. Noto una discrasia, in quanto la massa del popolo va avanti per la sua strada, a rischio che non sia sempre illuminata nel credere e nell’operare e inoltre che non si senta pienamente interpretata dalla “chiesa diocesana”, mentre la élite – o il “centro diocesi” che sostanzialmente fornisce gli indirizzi diocesani e il suo cammino, rischia l’autoreferenzialità, quindi di non dialogare con la massa del popolo e non interagire fruttuosamente con esso. Il risultato è che il cammino della diocesi in quanto tale risulta un po’ inceppato, la comunione ecclesiale messa di fatto in discussione, i cammini particolari esasperati e scollegati con la Diocesi.

5.
Qui si apre la seconda riflessione critica. Conseguenza forse proprio di quanto detto o chissà anche di quella che, a quanto ne so e ho potuto conoscere è un po’ la storia e il carattere dei pistoiesi, ho notato una certa propensione a ritagliarsi spazi e luoghi di influenza e di azione, quasi isole tra loro separate e non comunicanti. Non solo ogni parrocchia ha la tendenza a far da sé e a rinchiudersi nel proprio cerchio, ma ogni realtà ecclesiale manifesta la stessa tendenza. L’obiettiva proliferazione di gruppi, associazioni, movimenti ecc. che è un dato evidente agli occhi di un “forestiero” come me –di per sé dovrebbe significare ricchezza ecclesiale; non sembra però in realtà essere espressione della vivacità e della bella efflorescenza della variegata azione dello Spirito, quanto piuttosto della voglia di fare “partito”, di fare “isola” a se stante, di fare “patria a sé”, al riparo dalle ostilità degli altri, avendo spazi propri di riconoscimento e identificazione, appropriandosi di una fetta in qualche modo di potere e di “influenza”, che garantisca dalla invadenza o anche dalla ostilità presunta degli altri; creando anche uno spazio a volte per l’affermazione personale. Le realtà ecclesiali finiscono così per marciare su binari paralleli senza mai incontrarsi, mentre la gente si distribuisce per “appartenenze”. Dentro il proprio spazio di influenza e di potere si fanno talvolta anche cose belle, importanti, significative, perché ci si sente più tranquilli, riconosciuti e non obbligati a mettere in discussione le proprie idee o convinzioni.

6.
Arrivo ora alla terza nota critica che ricavo dalle mie impressioni di un anno. Qui, per la verità, più che di impressioni, si tratta di fatti concreti, esperienze vissute. Mi riferisco al fatto che diverse comunità parrocchiali sono divise al loro interno, vivono dei contrasti. Spesso la contrapposizione avviene attorno alla figura del parroco, gruppi pro parroco, gruppi contro – e qui i presbiteri sono interpellati sul loro operato, se non sia cioè esso stesso fonte di divisone o di incomprensione – Altre volte avviene per la presenza di circoli ricreativi collocati da tempo in locali parrocchiali. Circoli di varia natura e denominazione che sembrano creare problemi un po’ dovunque. Tanto che mi parrebbe necessario un chiarimento diocesano in merito, perché le difficoltà sono ricorrenti e diffuse. Altre volte ancora, le divisioni interne alle parrocchie sono dovute a vere e proprie fazioni per la gestione del “potere” parrocchiale. Vien da sorridere, perché che “potere” sarà mai quello parrocchiale? Eppure, in diverse realtà si verificano screzi proprio per questo. Gruppi che “tengono in mano” da sempre la parrocchia escludendo altri. Gente messa da parte senza tanti complimenti ecc. Uno stato di cose che forse dipende anche dal fatto che non si verificano i necessari ricambi nelle responsabilità parrocchiali. La tendenza è a “rimanere a vita” nei ruoli e nei compiti, vuoi perché magari effettivamente non ci sono alternative, vuoi però anche per la volontà di rimanere abbarbicati al proprio pezzetto di “potere”.

Il clero

1.
Che il nostro presbiterio sia alquanto variegato non è solo una mia impressione. È un dato. Variegato per nazionalità, variegato per percorsi formativi alquanto diversificati, variegato per età e sensibilità teologiche, spirituali e pastorali. L’amalgama non mi sembra sia ancora avvenuta né sia sempre facile. Nota invece veramente positiva nel complesso del clero, credo sia quella di un attaccamento alla gente, di un servizio prestato con impegno, con generosità, con amore, direi. Direi che nel lavoro pastorale dentro la propria realtà. Non sempre e dovunque, ma in genere sì. Quando però si esce dal proprio “orto”, si entra nel presbiterio o si deve pensare all’insieme della diocesi, qui le cose si complicano. Il presbiterio allora si manifesta diviso e spesso contrapposto. Apertamente o in sordina. Molti tacciono e preferiscono lasciar correre. Altri hanno tendenza a far prevalere il proprio pensiero e il proprio stile sugli altri. La critica aspra non manca. Spesso è sotterranea e condivisa soltanto a mezza bocca con i propri “affini”; altre volte è manifesta ma non diretta; altre volte ancora diventa scontro diretto. Io non so perché sia così. Sarebbe interessante cercare di capirne i motivi. Sta di fatto che è così: non vedo molto apprezzamento gli uni degli altri, la tendenza è piuttosto a delegittimarsi reciprocamente, a vedersi sostanzialmente come ostili, a giudicarci. Questo vale principalmente per gli italiani, mentre gli altri stanno a vedere rimanendo un po’ ai margini. Ma anche tra i non italiani ci sono problemi analoghi. Ripeto, non so perché sia così. Forse si è arrivati a questo punto partendo da lontano, forse è il dna pistoiese incline alla polemica e alla contrapposizione che gioca un ruolo anche nella struttura del presbiterio. Solo che credo occorra fare un salto, dare un colpo di reni, perché con l’aiuto della Grazia di Dio, si possa passare a una condizione presbiterale di vero ascolto reciproco, di piena stima vicendevole, anche di correzione fraterna, senz’altro, ma davvero fraterna! Anche di scontro acceso e appassionato, se vogliamo, senza perciò che mai “tramonti il giorno sopra la nostra ira”.

2.
In particolare, la presenza di presbiteri di nazionalità non italiana, pone un problema non da poco di integrazione e di comunione presbiterale. Questa presenza la ritengo sostanzialmente una risorsa, una ricchezza per la nostra Chiesa locale. Qualche problema però c’è e non conviene nasconderlo. È un problema comune a tutte le diocesi che abbiano accolto presbiteri da altre parti del mondo. Pare urgente interrogarci seriamente su come sia andato e stia andando questo inserimento, che cosa ci sia da migliorare, che cosa da correggere. L’impressione è che a volte questa situazione venga considerata come un dato di fatto, di cui ormai, meno se ne parla e meglio è. Conoscete il mio atteggiamento piuttosto restrittivo nei confronti di nuove immissioni in diocesi di presbiteri provenienti da altre nazioni. Questo forse creerà qualche difficoltà nell’aiuto che viene richiesto per le SS. Messe domenicali qua e là. Ritengo però che si sia ingenerata nel tempo una prassi non corretta: quella di avere in seminario presbiteri stranieri a disposizione per servizi da una parte e dall’altra. Un’abitudine secondo me da cambiare.

3.
Mi pare poi di rilevare una grande fatica a lavorare insieme, a collaborare pastoralmente, a vivere la corresponsabilità nei confronti del Popolo di Dio. Non so se questo derivi dal fatto che i vicariati, così come sono configurati oggi, non facilitano la collaborazione. Non so se alla fine, oltre all’ostacolo che proviene dall’individualismo, non ci sia che molto semplicemente da riconoscere che non si è abituati e quindi non si sa come lavorare insieme. Una non abitudine a lavorare insieme. Sta di fatto che l’impressione ricevuta in questi mesi è quella di una sostanziale difficoltà nello sviluppare un’azione pastorale vicariale come pure quella tra le “parrocchie in alleanza”.

4.
Ultima nota è al riguardo dei diaconi. Una presenza significativa in diocesi, una presenza importante e, di per sé, un ministero di grande valore. La mia sensazione però – senza entrare nel giudizio dei singoli ma restando sul piano più generale del ministero diaconale– è che ancora non si sia trovata una collocazione soddisfacente e adeguata al carisma diaconale. Questo, debbo dirlo, mi lascia un po’ perplesso nel riavvio diocesano di un cammino di discernimento in ordine al diaconato.

Concludo questa lunga disanima della situazione della città, della diocesi e del clero pistoiese con una nota di ottimismo. Non vorrei che queste mie impressioni, ripeto, assai parziali e approssimative fornissero un quadro a tinte fosche della situazione. Non solo non era nelle mie intenzioni quando stilavo queste considerazioni ma anche il contenuto di esse va interpretate come un atto d’amore suscitato dall’ammirazione per il bene che ho trovato e soprattutto per le grandi potenzialità che ho riscontrato. Le mie opinabili considerazioni vogliono piuttosto offrire materiale per la discussione, per il dibattito, per un approfondimento in vista di un bene maggiore della città e del suo territorio, della Chiesa particolare e del suo clero.

+ Fausto Tardelli
Vescovo di Pistoia
nel primo anniversario del suo ingresso in Diocesi