di Maria Chiara Grieco
Nella sua lettera pastorale «…e di me sarete testimoni» il vescovo posa il suo sguardo sui giovani e si interroga su quali siano le loro “attese di Vangelo” – intese come «tutte quelle situazioni che manifestano un’attesa, un bisogno, la speranza di una notizia “davvero buona” che rinnovi la vita, dia pace e gioia, permetta di trovare un senso pieno alla propria esistenza» -; muovendo domande che scuotono nel profondo, che si riassumono nell’essenza di come far sì che sia vivo il dialogo e l’incontro tra i giovani e la Chiesa.
Siamo come insensibili al messaggio che la Chiesa prova a comunicarci, ma non per indifferenza, quanto per un’incapacità di ascoltare, come se si parlassero linguaggi diversi e non trovassimo le risorse per comprendere quel che l’altro ci dice e prova a trasmetterci. E quando qualcosa non la si sente propria, si tende a non annoverarla nel nostro orizzonte, finendo per considerarla lontana da noi. Così, non riusciamo a intravedere la grandiosità del messaggio che il Vangelo contiene, non cogliamo nella celebrazione della messa la natura prima di incontro, riteniamo la fede qualcosa di astratto e intangibile senza riuscire a viverla come una proposta e una scelta di vita, e siamo incapaci di scorgere la bellezza di quell’Amore che fa sentire amati e di avvertire la grazia scaturita dall’intuire che la vita è un dono e non un «evento che si consuma nell’evento», che ciò che facciamo non è senza un fine ma è inserito in un disegno più grande. Ma quando il dialogo nasce e l’incontro si realizza, allora l’incapacità muta in sorpresa, gli occhi si riempiono di stupore, il cuore si illumina di speranza e ci sentiamo abbracciati da quell’Amore ineffabile ma capace di trasformare l’ordinario in straordinario.