Una riflessione – un po’ amara – sulla festa del 1 maggio

DI DARIO CAFIERO

Una festa del Lavoro quest’anno messa ancora più a dura prova e che non consente di rallegrare gli animi. Ad aggiungersi alla situazione già non rosea – le stesse previsioni di crescita nazionali di inizio anno prevedevano aumenti di decimali nella maggior parte della produzione per il 2020 – perdura l’incertezza legata al coronavirus, elemento che ha già costretto tantissimi, soprattutto i più piccoli, alla chiusura.
A livello nazionale, come territoriale, vengono fuori tutte le disparità acuite dalla contingenza: i grandissimi che chiedono tutele e che comunque riprendono in qualche modo, proprio perché grandissimi; i più piccoli – se non sostenuti da una brillantezza e da idee che sono sì positive ma che non possono diventare un reale elemento sistemico – sono costretti alla riduzione, di costi, di spese, di personale.L’incertezza come convitato di pietra a livello mondiale e non più esclusiva compagnia di chi è stato assunto con le tutele crescenti, di chi collabora a partita iva o di chi è lavoratore stagionale. Si scopre tutti la difficoltà di poter fare programmazione a breve termine, di ipotizzare un qualsivoglia futuro o di provare a costruire qualcosa di stabile.Difficile quindi individuare la strada da percorrere in una situazione di totale mancanza di responsabilità a tutti i livelli. Una situazione aggravata dal costante depotenziamento delle tutele lavorative in atto da almeno un paio di decenni, con un’ulteriore evidente disparità generazionale. In un sistema già gracile per chi è entrato nel mondo del lavoro da pochi anni, si è innestata una spirale di dichiarazioni che vedono nell’abbattimento salariale il trait d’union. Discorso ancora più paradossale per i liberi professionisti e per chi ha basato sulla propria presenza e produttività giornaliera gli introiti. I cori, ormai quasi unanimi, di critica all’operato del governo infatti non si fondano più su questo o quel giorno del calendario per le riaperture, o meglio: partono da quello stante l’assenza di una qualsivoglia programmazione reale di misure per salvare il salvabile. Non importerebbe riaprire il 4 o il 18 qualora ci fosse un piano, un’idea, un programma per le tantissime attività operative di tutti i settori. Non si può pensare di produrre tutti mascherine, di fare tutti consegne a domicilio, di rendere tutti i bar o ristoranti take away: sono solamente misure provvisorie, per contenere l’oggi.Purtroppo non c’è democrazia nel virus, c’è solo una forma di spostamento delle responsabilità verso gli estremi. Chi è più “grande” punta e punterà l’indice verso i massimi sistemi, chiederà garanzie con decine di zeri e troverà sempre comunque un orecchio pronto ad ascoltarlo. Sull’altro versante invece tante piccole storie silenziose fatte di coraggio e di resa, di bilanci familiari e di assenza di futuro, di speranza e di tante, troppe, paure.