di Luca Gori*
Tutti i settori della vita economica, sociale ed istituzionale sanno (o hanno saputo) quando terminerà il loro lockdown e come potranno riprendere la loro attività. Tutti, tranne due: scuola e università.
L’unica prospettiva, sul medio periodo, pare essere quella della didattica a distanza. Ci stiamo giocando una generazione di studenti e di famiglie, negli anni decisivi della formazione. Non è esagerato dirlo, se consideriamo la “fascia” degli studenti che va dalla scuola elementare sino agli universitari e gli effetti “a lungo periodo” di certe lacune nella formazione. L’art. 34 della Costituzione è lapidario. «La scuola è aperta a tutti». Nel mezzo dell’emergenza sanitaria, non è stato possibile mantenere l’apertura totale. Ma a distanza di settimane, forse qualche domanda conviene farla: quante famiglie hanno accesso alla rete efficacemente? E quante hanno devices adeguati? Quanti ragazzi con bisogni specifici non riescono ad utilizzare tali strumenti? Anche il secondo comma dell’art. 34 è esigente. «L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita». Non abbiamo dati affidabili, ma quale è stato il tasso di evasione dell’obbligo scolastico? Quanti sono gli studenti invisibili? Non pochi, a quanto pare. E che dire dei «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi» che non riusciranno a «raggiungere i gradi più alti degli studi»?
Sul fronte dell’Università la situazione non è migliore. Ciascun ateneo si muove in autonomia, puntando sulla didattica a distanza. Si stima sul prossimo anno accademico una perdita complessiva di 35.000 studenti per l’emergenza economica e le preoccupazioni sanitarie. Che fine faranno, quindi, le comunità universitarie, costituite da quei legami fecondi alimentati dalla formazione e dalla ricerca? Il “clima” universitario è decisivo per i risultati e non surrogabile “a distanza”. In questo contesto di “silenzio” istituzionale, sorprende che non si tratti il sistema educativo come una infrastruttura nazionale di enti pubblici e privati, ma si coltivi una logica per “settori”.
Vi è stata una vibrante polemica, in questi giorni, per aver omesso l’estensione delle misure a sostegno delle scuole paritarie. Che fare, quindi? Non è possibile affidarsi ad un salvifico dirigismo centralista, che tutto pianifichi e preveda; non è giusto scaricare tutto sui terminali periferici dell’amministrazione, spesso privi di mezzi. Né appellarsi alla filantropia o alle risorse di ciascun nucleo familiare. Occorre che ogni territorio si interroghi su come ripartire, mettendo a sistema ciò che è presente: strutture, competenze, esperienze, persone. Ogni comunità deve farsi carico dell’emergenza, mettendo in campo le risorse di cui dispone, in una logica di sussidiarietà. A chi sta a cuore, questa sfida?
*ricercatore, Istituto Superiore Sant’Anna di Pisa