di Ugo Feraci

Non sarà un caso che per la festa della Repubblica la liturgia del giorno abbia proposto il brano del Vangelo in cui Gesù dibatte sul tributo a Cesare, soprattutto ora che un nuovo disegno di legge propone di aggiungere l’attributo “laica” alla nostra Repubblica. Una modifica all’articolo 1 della Costituzione in vista di «una tutela più forte della libertà di religione e anche di professare il proprio ateismo». Così l’esponente Cinque Stelle Iunio Valerio Romano motiva il senso della proposta presentata alla Camera e sottoscritta da 28 deputati dello stesso partito. Una garanzia in più per chi non crede, e — dicono — per chi crede nella laicità dello Stato. Non sembra dircelo anche Gesù? A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. In realtà, almeno in quel passo del Vangelo, il problema non sta tanto nella distinzione, ma a un livello di “visione”.

Sulla distinzione il Concilio ha fatto chiarezza: «La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini» (Gaudium et spes, 76). La laicità avanzata dal novello disegno di legge, invece, intende — mi pare — collocare lo Stato in quella olimpica indifferenza che sigilla l’opzione religiosa nella sfera privata. Eppure, senza scendere troppo nel merito della proposta e nello spazio di chi di legge se ne intende, è facile cogliere l’atteggiamento di chi, anziché riconoscere e promuovere — intendimento invece ben presente nella nostra Costituzione, anche per chi è digiuno di diritto — frena e distingue. Basta scorrere i principi fondamentali per cogliere la concezione personalista che c’è dentro la Costituzione, e se non altro, la tensione a dare fiato a un uomo nuovo, aperto all’affermazione della sua dignità, che concorre con il lavoro personale «al progresso materiale o spirituale della societa» (art. 4).

Il punto, si diceva, sta nella “visione”, perché se manca quella l’orizzonte si chiude e si cade facilmente nell’interesse di parte. Di fatto l’orizzonte che nella Costituzione unisce e dà respiro alla persona e al paese risulterebbe incrinato da una precisazione che in nome della libertà sposta l’accento sulla cogenza dello Stato, sui “diritti” del diritto. Per tornare a quel brano di Vangelo il problema non sta tanto nel capire se sia giusto pagare le tasse, ma nel ridurre Dio e di conseguenza l’uomo, a una misura ben meschina: quella di una moneta.

Più cresce uno Stato così, che in nome della libertà definisce i confini dello Spirito, piuttosto che riconoscere l’esigenza religiosa che ogni uomo porta in sé, più rimpicciolisce la persona, che si trova di fronte quello che non deve essere. Eppure si va avanti con questo andazzo, toccando la Costituzione, i diritti civili, i temi della vita, la scuola, che poi sono rimasti i pochi spazi di manovra in cui uno Stato, oggi, può essere davvero incisivo sulla realtà.