di Luca Gori

Ancora troppi silenzi sulla riforma organica della nostra Costituzione. Operare con responsabilità per evitare squilibri

Nel disinteresse generale, a breve saremo chiamati a confermare (o meno) la riforma costituzionale che il Parlamento ha approvato a proposito della riduzione del numero dei membri delle due Camere (da 630 a 400 deputati, da 315 a 200 senatori). Nell’ultima votazione si è registrato un tasso di condivisione record. Il che dovrebbe preludere ad un altrettanto ampia approvazione da parte degli elettori. Diversamente, una vittoria del “no” renderebbe evidente una drammatica situazione di scollamento fra la rappresentanza politico–partitica e gli orientamenti dell’elettorato.

Molte sono state le ragioni addotte a giustificazione della riforma: da quella del mero risparmio di spesa, a quella più ragionata circa il rapporto fra numero dei parlamentari e funzionalità delle assemblee elettive, a quella ancora più sofisticata del riallineamento del numero alle nuove sedi “diffuse” della rappresentanza politica, non presenti all’epoca di approvazione dell’attuale numero. Altri ancora sostengono l’esigenza di inserirsi all’interno della media del rapporto fra eletti ed elettori dei Paesi occidentali, sul cui calcolo, fra l’altro, ci sono divergenze metodologiche quasi insuperabili.

Al di là del quesito, bisogna notare subito come questa micro–riforma sia, in realtà, l’innesco per una serie di riforme: avrebbero bisogno di una modifica seria i regolamenti delle due Camere, non di solo adeguamento numerico bensì di profondo ripensamento organizzativo e funzionale; la legge elettorale avrebbe bisogno di modifiche, poiché i numeri dei seggi non sono una variabile trascurabile nel funzionamento delle regole elettorali.

Ma vi è pure la disciplina dei partiti politici, poiché un Parlamento a ranghi ridotti ha bisogno di nuove regole a proposito del funzionamento delle macchine partitiche (o meglio di ciò resta di loro). Tuttavia non c’è alcuna consequenzialità o vincolo giuridico fra l’approvazione della riforma e le riforme successive. Sono adeguamenti che il Parlamento e, in esso, una classe politica responsabile deve attivare, costruendo il consenso necessario: si tratta di processi politici, che rispondono, quindi, alle leggi della politica. Però qui è giuoco la riscrittura delle regole del giuoco democratico. Si nota subito che manca, nelle forze politiche, un disegno globale: anche procedendo a piccole riforme puntuali, qual è l’idea complessiva di Costituzione che si intende percorrere?

Chi oggi chiede un voto favorevole ha il dovere di presentare il quadro delle riforme che dall’innesco della riduzione dei seggi può partire, con coerenza e lucidità. Ma anche chi chiede un voto negativo, dovrebbe dichiarare se intende sostenere un’idea integralmente conservativa, oppure facendo altre proposte. Tenendo presente, gli uni e gli altri, che qualsiasi intervento (o non intervento) sulla parte organizzativa della Costituzione ha riflessi diretti sulla prima parte e, quindi, sulla tutela dei diritti e sull’adempimento dei doveri, come i grandi maestri del diritto costituzionale hanno insegnato, mettendoci in guardia dal definire come innocua o minimale una riforma costituzionale. Invece, si ha l’impressione che si chieda un voto a scatola chiusa, col rischio di vedere approvata una riforma che “taglia” i seggi ma che rimane isolata, senza correttivi o modifiche consequenziali, generando squilibrio nell’architettura costituzionale: l’ordinamento democratico repubblicano può reggere anche questa ulteriore torsione? Ci si augura un sussulto di sensibilità da parte di tutte le forze politiche o, comunque, delle più responsabili.