Torna sui media nazionali il tema della tutela dei lavoratori dopo la tragedia di Montemurlo

di Dario Cafiero

A una settimana esatta dal Primo Maggio non si può non continuare a parlare di lavoro. La morte di Luana D’Orazio a Montemurlo ha risvegliato, almeno mediaticamente, la discussione sul lavoro e sulla sicurezza degli ambienti lavorativi. La storia della ventiduenne operaia e madre di un bambino di 5 anni, è stata analizzata e, purtroppo, spesso banalizzata da molti media: definire il luogo dell’incidente “la fabbrica della morte” è una riduzione ingiusta di un ambiente dove lavorano persone e non “ombre”, come superficialmente riportato da parte della stampa.

Resta nella maggioranza delle persone coinvolte, direttamente e non, un senso di incredulità e di sgomento, soprattutto per questo schiaffo di “realtà” per problemi che nell’opinione pubblica generale sono relegati al passato. Perplessità espresse anche dal vescovo Tardelli. «Siamo una società evoluta, abbiamo strumenti a disposizione di ogni genere, non è possibile che si muoia ancora in un ambiente di lavoro, come succedeva 30, 40, 50 anni fa – sottolinea Tardelli –. È veramente assurdo, vuol dire che qualcosa evidentemente non funziona, perché avremmo tutte le possibilità in questo momento per risolvere questo problema, se ci fosse davvero un impegno da parte di tutti ». Impegno e azioni ormai non più posticipabili o rinviabili dopo le solite estenuanti rappresaglie dialettiche fatte di rimpalli di responsabilità, pantano in cui restano annualmente ancora centinaia di morti sul lavoro, già oltre 190 in questi primi mesi del 2021 in Italia. «In tempi di crisi, acuita dalla pandemia – sottolinea il coordinamento Donne Cgil di Pistoia – con i tassi di disoccupazione alle stelle (soprattutto quella femmini-le), si è talmente ricattabili che tutele e sicurezza

sul posto di lavoro sembrano lussi e non diritti, conquiste di civiltà e di uguaglianza. Le norme ci sono e devono essere rispettate, controlli e investimenti sulla sicurezza non devono più essere considerati costi ed ostacoli alla produzione». Superare l’indignazione, riconquistata tra l’altro solo al prezzo dell’ennesima tragedia, e rendere la richiesta di sicurezza non una formalità in mano a dei comunicati stampa, ma un’azione concreta e reale. Nella lenta ma inesorabile china dei diritti lavorativi smantellati, in nome della rincorsa ad una paritetica produttività internazionale (basata, non a caso, spesso proprio su condizioni precarie o nulle di sicurezza sul lavoro), troppe volte i compromessi raggiunti hanno sacrificato proprio le basi del lavoro: la dignità del salario, la possibilità di vivere del proprio lavoro e non solo di sopravvivere e, non per ultima, proprio la sicurezza. Manutenzione e sicurezza quindi, tanto invocate a gran voce dopo le tragedie che hanno riguardato il settore pubblico o di concessioni pubbliche (Autostrade per il ponte Morandi di Genova, RFI e Ferrovie per la strage di Viareggio, quest’ultima tombata in una medievale prescrizione), ma che sono percepite come superflue o accessorie anche in moltissime altre imprese o aziende. In quante altre realtà gli stessi corsi – ormai obbligatori – sulla sicurezza sono poco più di una formalità, con ore di permesso dedicate e quiz che servono per “sbrigare la pratica”? Atteggiamenti, consuetudini e mancanza di sorveglianza sono tutti tasselli di un ambiente dove poter sorvolare sulla sicurezza per velocizzare il lavoro.

Proprio per questo è veramente inopportuna, questa volta, la scelta dei cosiddetti “minuti di silenzio”, disciplina in cui spesso l’Italia si piazza ai vertici del mondo in improbabili olimpiadi. La cultura del “minuto di silenzio” è esattamente agli antipodi del difficile percorso che ci porterà alla concreta risoluzione dei problemi in ambito lavorativo. Troppo silenzio ha gravato sul lavoro e sulla sua sicurezza, ulteriore

silenzio – seppur con l’etichetta posticcia della commemorazione – non servirà a niente se non a fare da preambolo ai riflettori che progressivamente si abbasseranno, offuscati dalla carenza di dettagli personali, dal totale saccheggio di foto postate sui social o in attesa degli sviluppi giudiziari, unico filo che potrà riportare con flash intermittenti di nuovo l’attenzione su quanto successo.

Come sottolineato dal Vescovo Tardelli «siamo una società che si distrae facilmente, una società che si basa molto sulle emozioni del momento e che fa fatica a tradurre in responsabilità quotidiane e concrete le cose che, magari, in certi momenti, vengono pure percepite. Diciamo – chiosa Tardelli – che siamo una società tendenzialmente distratta e quindi, evidentemente, dopo la fiammata dell’emozione, facilmente si corre da un’altra parte. Questo è un problema di una società molto distratta e incline a non riflettere, a non pensare, in modo concreto, alla realtà».