di Ugo Feraci

Di cosa ha bisogno la Chiesa di oggi? Le occasioni per domandarselo non mancheranno. Il Sinodo dei vescovi punta sulla sinodalità, sull’esigenza di uscire dal “si è sempre fatto così” per dare alla Chiesa un volto più polifonico, capace di dialogo e più ampia corresponsabilità. Poi c’è il cammino sinodale della Chiesa in Italia che si orienta all’esigenza di una rinnovata evangelizzazione in un tempo disorientato in cui anche “programmare” diventa sempre più complicato. Infine c’è il percorso della Chiesa diocesana indirizzata al suo primo sinodo dopo il Concilio Vaticano II. 

«Vorrei davvero, carissimi amici, fratelli e sorelle, — diceva il vescovo nella sua omelia per l’apertura dell’anno pastorale — che vedessimo il cammino sinodale non come un insieme di cose da fare, bensì come uno stare a riposarci insieme a Gesù, condividendo la nostra vita e la vita delle nostre parrocchie e acquisendo lo sguardo pieno di amore di Gesù sul mondo. Si tratta cioè di imparare a vedere il mondo e le persone come le vede lui, cogliendo i bisogni che esse hanno per rispondervi, con cuore compassionevole». 

«Imparare a vedere il mondo e le persone come le vede lui». È bello questo suggerimento, che diventa possibile esercizio, da praticare a tutti i livelli e a tutte le circostanze, dalla mattina alla sera, a partire dalle nostre comunità e dalle nostre famiglie.

Quasi quasi ci provo. E mentre il cuore rischia di smarrirsi di fronte al mio sguardo che perlustra con quello di Gesù le meraviglie del Creato o il dono immacolato della luce del mattino, mi ricordo della prenotazione all’Agenzia delle Entrate. Così, mentre procedo in macchina nel traffico il mio sguardo spazza le strade, gli uomini e le donne che affollano la via e guardano di traverso il primo tizio che non riparte di scatto al verde del semaforo. Entro leggero con la prenotazione tra le dita all’Agenzia delle Entrate e l’incanto si incrina davanti all’inceppamento della macchinetta dispensatrice di ticket, irrimediabilmente e puntualmente impazzita al mio arrivo dinanzi al desk di accoglienza. Dopo un quarto d’ora di tentativi inutili e di occhiate a bruciapelo da sotto la mascherina verso l’addetta all’accoglienza guadagno l’agognato numeretto, riconcentro lo sguardo sul gregge smarrito che siede nella sala d’attesa con la prenotazione nervosamente passata e ripassata tra le mani e sulla vita che corre dietro «una successione problematica», «un documento mai arrivato a destinazione», «un contratto da rinnovare». Al 45° minuto di attesa il mio pio esercizio si è miseramente arenato in un’estenuata frustrazione.

La giornata chiama ad altri incontri in ufficio dopo un infruttuoso colloquio con l’impiegato di turno. Eppure, non appena le terga sfiorano la seggiola della scrivania il picchiettio forsennato alla finestra rivela la presenza di chi dal vetro perlustra con lo sguardo in ufficio per guadagnare un momento (l’ennesimo) di considerazione. Poi arriva il turno delle grane approdate con le mail del giorno, la telefonata di chi si lamenta della Chiesa o dei suoi ministri, l’appuntamento dimenticato con chi vorresti guardare senza tradire il fatto che non ricordi il motivo dell’incontro, chi bussa alla porta per dirti che sta male, ma che tu non lo capisci.

Forse non sono riuscito a vedere il mondo come lo vede lui, ma vorrei che lui non vedesse il mondo come lo vedo io in certi momenti. Però l’errore è presto detto. Questo sguardo differente sulle cose e sugli altri non lo costruisco con la mia buona volontà, ma scoprendo la sua buona volontà anche dentro le minime e massime magagne del giorno. È lo sguardo, mi dico, che i santi hanno saputo custodire e che risuona in quel ritornello di “Beati” che rintocca nella solennità di Ognissanti. Nella prova del martirio, come nel dolore della malattia, nello spazio della prova come in quello della gioia. In fondo, per questo popolo delle Beatitudini, si tratta di spogliarsi della resistenza più grande: quella di chi vorrebbe far tornare ogni cosa, trovando il posto anche a Dio. Un posto indicato dalla più onesta buona volontà, a distanza di sicurezza dal dl Zan, lontano il più possibile dal Bolsonaro di turno, né troppo lontano, né troppo vicino dalle esigenze radicali del Vangelo, che mi consenta di dire cosa è giusto o sbagliato, di segnare una riga tra buoni e cattivi, tra no vax e resto del mondo, tra Chiesa retrograda e Chiesa che ha capito il Vangelo, tra chi mi va bene e chi rompe le scatole.

Di cosa ha bisogno la Chiesa di oggi? Non lo so. Ma forse anche di un po’ di santità.