In tutta questa storia della pandemia i cattolici hanno imboccato le strade più diverse: c’è quella di chi si lascia scorrere tutto sopra la testa purché non si cambi una virgola, ci sono quanti sono divisi in una polarizzazione che corre dai più intransigenti difensori delle direttive statali, ai più intransigenti contestatori di un presunto nuovo ordine mondiale, in un frullato di tradizionalismo e progressismo scientista che ha risucchiato anti e pro bergogliani, teocon e ultra progressisti.
Ci concentriamo sul vaccino e sulla libertà di scelta, eppure l’alternativa sta davvero nel domandarsi se ci salva Gesù Cristo o la terza dose? Questo tempo non potrebbe provocarci a riflettere sul vero senso della preghiera? O a domandarci che cosa significhi davvero la parola “salvezza”? Non ci potrebbe spingere a ripensare uno scientismo dominante in cui tutto sembra risolversi nella tecnica? E a fuggire un fideismo fondamentalista? Ci dicevamo che saremmo diventati migliori. Quel che abbiamo sotto gli occhi non lascia spazio a facili ottimismi. Meglio che vada ci siamo arrangiati.
Nei giorni addietro la liturgia proponeva alcune parole terribili con cui Gesù accusava l’incredulità di scribi e farisei di fronte all’annuncio del Battista: «hanno reso vano il disegno di Dio su di loro». Come ricordava un articolo di Dominique Collin su Vita e Pensiero ci siamo accorti «che l’imprevisto, ciò di cui non esistono precedenti, può accadere», che «angosciati da un futurismo che non promette niente di buono (catastrofismo imperante)» e un passato che ha preso «il posto del futuro (commemorazione e pentimento), ci troviamo reclusi in un presente che è diventato l’unica dimensione disponibile del tempo». Una morsa che rischia di far perdere di vista ciò che più conta: scoprire il disegno di Dio su di noi.
Per scoprirlo in primo luogo occorre lasciarsi interpellare da Lui. Il Natale, nei racconti evangelici, racconta di un Dio che si fa bambino, immerso in un mondo ostile e diviso dove però si possono intonare inni di lode (dal Benedictus al Magnificat), in cui la comunicazione passa per canali inaspettati tra due piccoli non ancora nati. Una comunicazione “sensibile”, che parte dall’incontro e attiva un ascolto più profondo. Il Natale dice il mistero di un Dio che ha bisogno dell’uomo, che mendica al cuore di Maria e di Giuseppe; racconta di interventi divini che non risolvono le criticità, ma “complicano” la vita ponendola di fronte a scelte decisive (accogliere o rifiutare Maria? Come crescere un bambino aperto all’Assoluto?); parla di un mondo che non ha tempo né rispetto per mamme in attesa e famiglie senza casa; di un potere che ha paura di essere messo in discussione; di segni che chiedono di puntare lo sguardo più in alto e più lontano, di scommettere su luci non troppo evidenti. Il Natale ci dice anche che il mondo di prima è finito. Forse è finito anche il nostro. Abbiamo la fede per voltare pagina?
Ugo Feraci