Stiamo attenti a non perdere di vista l’eccezionale che passa sotto nostri occhi. Il tempo della pandemia ci pesa come un macigno, ma se ci fermiamo un attimo questi giorni comunque memorabili sono corsi via come le perle di una collana spezzata. Il tempo passa, ma il tempo del credente è sempre denso di grazia, mai vuoto o ripetitivo. Quanto abbiamo vissuto ce lo ricorda: esattamente un anno fa il vescovo apriva in Cattedrale la porta santa. Era l’inizio dell’anno santo iacobeo. Da allora quante volte abbiamo vissuto la grazia legata al passaggio della porta santa? Quante volte abbiamo accolto il dono dell’indulgenza per noi o per una persona cara? È vero: il Signore non è avaro di misericordia, né lo esaurisce una secca contabilità sacramentale. Però non trascuriamo la grazia a portata di mano. La porta è il segno, ma il passaggio è un impegno più profondo. «Entrare più in profondità nelle cose», «guardare dentro noi stessi», «ripensare a tutta la nostra vita.. forse è proprio questo il senso di un anno santo» ricordava il vescovo nell’omelia

di quello storico 9 gennaio scorso. La porta santa sta lì a ricordarcelo. Ma forse anche ad ammonirci che è tempo di aprire altre “porte”.

C’è un famoso aneddoto che ho ritrovato nel provocante libro di Tomaso Montanari Chiese chiuse. «Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”». La porta Santa allora sia ancora, per il tempo che resta, la buona occasione per lasciarlo entrare nella nostra vita.

Pievano Arlotto