Eh sì, piace! Piace proprio a tanti. Naturalmente parlo di Sanremo. Milioni di persone incollate alla tv a guardare lo spettacolo che forse più di ogni altro ci rispecchia e ci rappresenta. Sono nato con lui: nel senso che avevo poco più di 20 giorni quando nasceva il festival. Mi hanno raccontato che da piccolino, la prima canzonetta che provò ad uscire balbettando dalla mia bocca fu Papaveri e papere dell’anno dopo. La voce di Nilla Pizzi con Grazie dei fiori e Vola colomba bianca, mi è rimasta dentro, confusa coi miei primi anni di vita.
Settantuno ne sono passati e Sanremo è ancora lì: un gran mescolone di cose, dove dentro c’è un po’ di tutto e che forse alla fine piace proprio perché c’è dentro di tutto: il bello e il trash, il ridicolo e lo splendore, i sentimenti più veri e la cialtroneria più grande, la voglia di leggerezza – che l’anno scorso si invocava anche cantando, seppur con un po’ di amaro in bocca – ma pure l’inevitabile profondità dei pensieri e dell’esistenza. Uno specchio di noi e forse della nostra italianità.
Nel festival, come nella vita poi però, quello che rimane, è la verità di noi stessi, davanti alla nostra coscienza e, in definitiva, davanti a Dio. Perché, se la vita assomiglia spesso a un grande show che comunque deve andare avanti, come cantavano stupendamente i Queen, la drammaticità delle nostre scelte non ce la risparmia nessuno.
+ Fausto Tardelli, vescovo