Nate a Pistoia negli anni ottanta le Suore Clarisse di Betania vivono la loro vocazione umile e discreta per la realtà diocesana

Si chiama Casa Betania, come il villaggio vicino Gerusalemme in cui abitavano Marta, Lazzaro e Maria, gli amici di Gesù. La casa “dell’amicizia”, dell’intimità col Signore si trova in montagna, a Casore del Monte, non troppo lontano da Pistoia. La abitano le suore Clarisse di Betania, sorte in Diocesi negli anni ottanta e che «dopo undici anni dalla fondazione, prima nella pieve di Montalbiolo, poi a Giaccherino trovarono posto a Casore del Monte.

«Già nel piccolo Eremo di Montalbiolo, — raccontano le monache — monsignor Scatizzi ci trasmise la sua intuizione di essere una fraternità in adorazione, aperta ai fratelli, di accoglienza per la preghiera, come oggetto primario del nostro impegno quotidiano. E così a Giaccherino » — aggiungono —, dove hanno praticato «accoglienza, preghiera, spirito di sacrificio, servizio, sostenute, incoraggiate da un vescovo (Simone Scatizzi) che ha fatto egli stesso della sua vita pastorale, un vero dono alla nostra Chiesa. Infine a Casore del Monte, tra il silenzio e il verde di questo luogo, ancora preghiera e ancora animazione liturgica tra i fratelli della casa circondariale di Pistoia».

Una piccola comunità comunque attenta alla vita della Diocesi: «quando padre Raniero Cantalamessa venne a Giaccherino con il nostro vescovo Scatizzi, in occasione della “missione cittadina”, ci definì “una nuvoletta nella Chiesa” e noi, quattro sorelle Clarisse di Betania, abbiamo sempre considerato questo nostro posto nella Chiesa locale».

L’originalità del carisma delle Piccole sorelle di Betania prosegue oggi. «Ci siamo sempre sentite amabilmente accolte e amate dal nostro vescovo Fausto Tardelli. A lui, nei vari incontri qui all’eremo, semplicemente abbiamo manifestato il nostro vivere quotidiano; l’abbiamo reso partecipe di un carisma che, più che originale, è nel cuore della Chiesa, adorazione e lode costante a Dio presente nel mondo e nella storia, ed eco di una vita solidale con i fratelli».

Dal 2005 le suore scendono a Pistoia nella Casa Circondariale di Santa Caterina in Brana, per stare accanto e aiutare a pregare i detenuti. «È una scelta — spiegano le suore — che abbiamo sentito. Rientra nel nostro carisma che parla di accoglienza e preghiera. Abbiamo incontrato senza giudizio, cercando di custodire una grande apertura nei confronti dei detenuti». «È stata un’esperienza positiva. Animavamo la messa, se qualcuno chiedeva preghiere le abbiamo accolte. Andavamo tutti i giorni festivi, compresi Natale e Pasqua, prima facevamo anche delle liturgie penitenziali. Avevamo degli appuntamenti fissi». La presenza di altre appartenenze religiose non era un problema: «Tutti ci hanno accolto bene, ortodossi, musulmani. Non abbiamo avuto problemi. E anche con gli agenti non abbiamo mai avuto nulla da dire».

Dal 2020 la loro presenza al Santa Caterina in Brana è però sospesa. «Abbiamo smesso per il Covid e anche perché non stiamo bene». Ma intanto, in attesa di tempi migliori, le quattro sorelle di Betania continuano a vivere, secondo il loro stile discreto, ma attento, un carisma a servizio della comunità diocesana.

A cuore aperto accanto ai detenuti

«Non abbiamo mai avuto paura. Siamo sempre andate a viso aperto». L’esperienza in carcere della suore di Clarisse di Betania racconta la fecondità del Vangelo e, meglio di tanti discorsi, spiega la forza che arriva da una presenza. «I detenuti chiedono preghiere, sentono che non sono giudicati, ma che sono accolti. Quel bene che abbiamo potuto fare lo abbiamo fatto volentieri. Padre Alfredo, il cappellano della Casa circondariale di Pistoia, ci dice sempre: “quando mancate si sente”».

«La nostra presenza – raccontano le suore – è importante perché in noi i detenuti trovano qualcuno a cui affidarsi, a cui fare riferimento. È importante quel sorriso, quell’apertura. Loro lo sentono molto». Tra tante storie ce n’è una significativa. «C’era un detenuto difficile, dal carattere arrogante. Un giorno ci chiese di aggiustare un vecchio orologio, ricordo della sua mamma. Ce lo chiese con quel suo fare duro e scortese. Lo abbiamo aiutato per quello che si poteva fare. Si è sentito amato e abbiamo visto in lui un cambiamento radicale. Oggi ha scontato i suoi giorni di pena ed è tornato a casa, ma ogni 15 giorni ci chiama».

Daniela Raspollini