«Come e perché ho deciso di dedicare tempo ed energie alla comunità»

Perché ci si avvicina al “catechismo? «Perché si è parte di una comunità, sentiamo di appartenere a un gruppo in cui le persone si ri-conoscono, consapevoli che nessuno in questo contesto è privo di un ruolo o trasparente, anche chi potrebbe avere atteggiamenti disinteressati o passivi è pur sempre un esempio per gli altri».

Patrizia Beacci prova a raccontare le motivazioni che l’hanno spinta a diventare catechista e a spendersi per i giovani del Bottegone. C’è un “perché” dietro la scelta di diventare catechista, che arriva quando «c’è una sola buona Parola, che ci viene ripetuta incessantemente da Qualcuno che sta alla porta e bussa, che se hai ascoltata anche una sola volta non puoi fare a meno di correre da tutti e raccontare. È per questo ti avvicini alla catechesi. Ma sta a noi scegliere». «In questo contesto — racconta — se hai fatto una buona esperienza, hai una buona notizia e non puoi esimerti dal condividerla, è più forte di te! Non è una novità, guardiamo la diffusione e il successo che hanno le varie piattaforme social; perché si sente il desiderio di condividere un buon ristorante, un evento, un taglio di capelli o le foto di una vacanza? Perché è vitale sentire di appartenere ad una comunità, in cui condividere o cercare approvazione». Quando ci si avvicina dunque al servizio in parrocchia? «Quando senti che c’è bisogno, perché anche la cultura del “mi interessa” è un valore da trasmettere, in ogni ambito». E se ti rendi disponibile ti accorgi che succede «come quando si cammina, con un piede indietro nella storia personale di ciascuno, e uno avanti nel terreno nuovo degli incontri, della formazione, della preghiera».

Il tempo dell’emergenza sanitaria ha pesato molto sulla formazione catechistica, aprendo scenari poco rassicuranti. Eppure l’approccio di Patrizia alla crisi di questi anni, sulla scia di papa Francesco, invita «a trovare qualcosa positivo, anche nel tempo della pandemia». «Innanzitutto — spiega Patrizia — il ruolo delle famiglia. Perché il catechista dovrebbe essere il collaboratore dei genitori, non un insegnante. Non è più il tempo in cui a scuola dopo il saluto alla maestra, rigorosamente in piedi, ci si faceva il segno della croce e le preghiere e i precetti si insegnavano in casa. Adesso parliamo di relazioni fluide e famiglie “sulla soglia”, eppure la nostra catechesi è centrata e concentrata sui bambini. Ma quali sono i primi occhi che i bimbi vedono quando nascono, o le prime parole che sentono, o le mani che li sostengono? Sono quelle dei genitori, anche di quelli più sgangherati, che sono esempi e modelli per i loro figli, e se in un certo momento della loro vita, per i motivi più vari, bussano alle porte della parrocchia per chiedere qualcosa che magari nemmeno conoscono bene, bisogna spalancare porte portoni e le braccia e fare festa grande». C’è bisogno, prosegue Bacci, di «accogliere tutti, soprattutto i genitori, quelli da cui inizia la storia di quel bambino».

Dopo due anni di pandemia anche la proposta del catechismo rappresenta un punto fermo. «Noi catechisti ci sentiamo come chi è convalescente dopo lunga malattia, ci muoviamo guardinghi, ansiosi di ripartire, curiosi di incontrare i ragazzi. Siamo colpiti dalla domanda di normalità delle famiglie. Indubbiamente i nostri ragazzi sono quelli che per età hanno sofferto di più della mancanza di relazioni sociali, i genitori lo hanno compreso e per questo chiedono il ripristino degli incontri in presenza. Anche questa è una opportunità donata di cui fare tesoro, insieme però alla consapevolezza che non si può ripartire da dove ci siamo interrotti. La “restaurazione” del catechismo come era prima potrebbe essere un rimedio assolutamente inefficace». Un elemento decisivo è puntare sulla collaborazione tra parrocchie, per Patrizia si tratta di qualcosa di «vitale, servono tutte le forze, soprattutto quelle più giovani. Suor Giovanna, don Cristiano (Ufficio Catechistico Diocesano, ndr) e i loro collaboratori dell’ufficio catechistico diocesano stanno portando avanti un percorso nuovo: creare una comunità di catechiste è “parlare una sola lingua” in ogni angolo del territorio. E questo è già un inizio. La riforma dei vicariati, cosi come il recente sinodo, sono stimoli forti per superare quando possibile la dimensione parrocchiale. In un contesto come il nostro, così densamente popolato, quell’abitare accanto, tipico della parrocchia perde valore, gli spostamenti e i mezzi di comunicazione facilitano le relazioni, ma è necessaria la guida illuminata del parroco».

Daniela Raspollini