«Siamo ancora lontani dal concepire come la violenza si annidi fra le pieghe, spesso sottili, di “policy aziendali” sottaciute ma che minano nel profondo la dignità delle donne»

Ci sono date segnate sul calendario che vorrebbero richiamare l’attenzione su qualcosa di significativo. Forse ce ne sono anche troppe per catturare l’attenzione: ogni giorno, ormai, ha la sua dedicazione quasi a voler scalzare i santi dal calendario. Ma quella del 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ha un impatto emotivo, e pure evocativo, forte. Purtroppo non passa giorno che si legga sulle cronache di brutali violenze ma tante violenze accadono senza clamore, nel silenzio occupato dal nostro particolare. Viene da chiedersi se, al passo della ricorrenza e delle molte celebrazioni, sia cresciuta altrettanto la sensibilità e se, al passo, la società sia stata permeata da una cultura positiva al riguardo.

Opportunamente le istituzioni si fanno promotrici di convegni, di mostre, di eventi artistici e culturali volti a manifestare solidarietà e vicinanza al mondo femminile. Mondo femminile dalle mille e una sfaccettature, fatto di tante unicità che sono valore incommensurabile per ogni comunità che voglia dirsi generativa. Per l’occasione anche aziende importanti hanno fatto e fanno meritoriamente la loro parte promuovendo l’istallazione di panchine rosse, aiutando il mondo del volontariato o gli sportelli antiviolenza perché, giustamente, per sostenere le donne serve la comunità.

Il tema dell’impiego delle donne nel mondo del lavoro viene indicato come fattore positivo, fortemente auspicato, per la crescita del Paese e norme specifiche calcano tale direzione.

La precarietà del lavoro è divenuta, purtroppo, la norma soprattutto fra i giovani e le donne e, sebbene ci siano tutele di legge importanti la cosa si scontra, in pieno inverno demografico, con la crescita delle “dimissioni” al momento della nascita del primo figlio. Siamo ancora lontani dal concepire come la violenza si annidi fra le pieghe, spesso sottili, di “policy aziendali” sottaciute ma che minano nel profondo la dignità delle donne ancora una volta chiamate a dover scegliere se lavorare o essere anche madri, mortificando le legittime aspirazioni. E allora, se crediamo davvero nelle donne, nel loro essere parte determinante della crescita e dello sviluppo, perché ci sono tante remore nelle aziende a farsi fregio di azioni positive concrete a favore delle donne?

Quanto potrebbe essere davvero lungimirante e bello portare a conoscenza come le donne nella propria azienda hanno trascorso serenamente il periodo della gravidanza, quanti contratti a termine sono stati confermati in caso di gravidanza e poi, a seguire, quante donne stanno usufruendo del sostegno della “policy aziendale” a favore della cura dei figli?

Non sarebbe questo un passo forte e deciso per presentarsi quale “impresa come bene sociale” oppure abbiamo tenacemente deciso di cancellare la specificità delle donne e con questa il futuro?

Renata Fabbri