Come custodire e proteggere ambienti storici del patrimonio ecclesiastico che hanno perduto la funzione di culto? In dialogo con Claudio Rosati, esperto di beni culturali

Quale futuro per chiese e conventi dismessi? Ne parliamo con Claudio Rosati, esperto di museologia e valorizzazione e comunicazione dei beni culturali.

Dottor Rosati, La città di Pistoia è ricca di chiese ed edifici storici che hanno perduto la loro funzione originaria e che attendono di trovare nuove destinazioni; l’elenco sarebbe lungo. Quali sono, a suo avviso, le urgenze più pressanti?

Fa impressione, soprattutto, il numero degli edifici religiosi chiusi, ma il fenomeno è europeo e non solo. A Utrecht, solo per fare un esempio, un gruppo di cittadini ha promosso una petizione perché la cattedrale di Santa Caterina non diventi un museo. “Il cattolicesimo di Utrecht non è così vetusto da meritarsi di finire in un museo”, scrivono. Della questione si è occupato anche il Pontificio Consiglio della Cultura che ha elaborato nel 2018 un documento di linee guida sulla dismissione e il riuso ecclesiale di chiese. «Il problema della dismissione di luoghi di culto – si legge nel testo approvato dai delegati delle conferenze episcopali d’Europa, Stati Uniti d’America, Canada e Australia-, non è nuovo nella storia, ma oggi si pone all’attenzione delle Chiese per cause legate a una condizione moderna che possiamo definire sommariamente di secolarizzazione avanzata, ma allo stesso tempo in un contesto di maggiore consapevolezza del valore storico-artistico e simbolico dell’edificio sacro e dei manufatti in esso conservati». Il documento mette, pertanto, sullo stesso piano la condizione storica del venir meno delle ragioni di esistenza di una parte consistente di edifici religiosi e la presenza di una sensibilità nuova per i valori storico e artistici di questo patrimonio. Come se un dato positivo compensasse in qualche modo quello negativo. Dobbiamo pertanto ragionare in termini di città e considerare che quella città plasmata anche dal cattolicesimo si è profondamente trasformata. Se devo scegliere una priorità negli interventi, ma è davvero difficile, indico allora il complesso di San Lorenzo perché il suo recupero può incidere nella rigenerazione urbana del quartiere.

Recentemente è stato proposto di spostare le opere di Marino Marini nell’ex chiesa di San Lorenzo; cosa ne pensa?

Anche i musei sono figli di un’epoca e nel “Marini”, forse, questa condizione si avverte più che in altri. Quella dell’ex convento del Tau, quaranta anni fa, fu una scelta coraggiosa dell’amministrazione comunale, dettata dalle contingenze. C’era la volontà di Marino e di sua moglie Mercedes di fare di Pistoia un luogo importante nel racconto della vicenda dell’artista e anche i tempi della risposta pubblica dovevano essere all’altezza. Non si poteva indugiare. Oggi si può ripensare serenamente quella scelta e in questo senso San Lorenzo può essere un’opzione interessante. Ma prima occorre un progetto di museo, perché è l’idea stessa di museo a essere cambiata negli anni. Non è solo un luogo di contemplazione e di mostre, ma è sempre più uno spazio polifonico al servizio della comunità.

Un esempio riuscito di recupero è il caso dell’ex chiesa di San Salvatore. Quali criteri sono stati adottati per dare nuova vita a questo ambiente?

Ricordo quando sono entrato per la prima volta, insieme all’architetto Nicola Becagli, nell’ex chiesa di San Salvatore. Era chiusa da due secoli e in uno stato di progressivo degrado. Oggi è un luogo che parla alla nostra sensibilità, all’interno non si può rimanere indifferenti. La musica d’organo, che si può ascoltare, ci aiuta nella comprensione del luogo. Durante il cantiere di restauro, le persone chiedevano che cosa ci sarebbe stato fatto perché non immaginavano che quell’architettura avrebbe potuto avere un valore di per sé. La chiesa non è pertanto al servizio del museo, ma è questo che concorre a raccontare l’edificio. In un periodo che vede progressivamente chiudersi molte chiese, si restituisce al pubblico una chiesa con la sua morfologia; in questo senso è stato di aiuto il documento della Pontificia Commissione per la Cultura di cui ho parlato poc’anzi. Non è stata una scelta facile in un’epoca di stordimento del digitale, ma le reazioni del pubblico confermano la validità di quello che è stato fatto. Diciamo che è stato fatto un investimento per il futuro.

Nelle scorse settimane è stato presentato anche il rinnovato allestimento del Museo del Ricamo. Quali sono le caratteristiche del percorso espositivo?

Il Museo del Ricamo è un gioiello per quello che esprime: un gruppo di volontarie sostiene con la cura di un’importante collezione e con attività di formazione la pratica del ricamo a mano. Hanno anticipato così l’idea di una comunità di eredità, secondo la convenzione di Faro del Consiglio di Europa, che si prende cura di un sapere per la trasmissione alle generazioni future. Il Museo è stato revisionato negli apparati espositivi e si mostra ora ancor più leggibile e godibile.

Dal dopoguerra ad oggi la città è profondamente cambiata: cosa possiamo cogliere da questi mutamenti?

La città ha perso e continua a perdere la diversità che è storicamente uno dei suoi elementi costitutivi. Sulla Sala, a esempio, ho in mente un solo negozio di generi alimentari. Il trasferimento dell’ospedale del Ceppo ha impoverito il quartiere di relazioni significative. La specializzazione dei comparti porta ad avere minore qualità urbana. Per questo motivo ritengo un fatto di civiltà la presenza nel centro storico delle camere mortuarie della Misericordia. Come si ricorderà, anni fa si volevano spostare in Toscana dai centri urbani. Allo stesso tempo le nuove espansioni urbane faticano a ricreare quella rete di relazioni che ha costituito uno degli elementi della qualità della città.

Ugo Feraci

(Tratto da La Vita-Pistoia Sette, dorso diocesano di Avvenire)