Giovedì 22 febbraio l’incontro a Valdibrana con monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino per la ripresa del Sinodo Diocesano
Ripartire dal Concilio sì, ma con uno sguardo sul futuro. Nella relazione proposta da Monsignor Roberto Repole a Valdibrana come momento formativo nel percorso del sinodo diocesano di Pistoia c’è la Chiesa del Vaticano II, quella che forse non abbiamo ancora imparato a conoscere e vivere e che insegna come «prima di qualunque differenziazione all’interno della Chiesa sulla base dei servizi o dei sacramenti, c’è qualcosa che ci accomuna tutti ed è la pari dignità di essere cristiani».
«A 60 anni di distanza dal Concilio – ha aggiunto però l’arcivescovo di Torino – dobbiamo pensare ad alcune incompiutezze» che oggi, in un contesto molto diverso, risaltano inevitabilmente.
«La prima – ha spiegato Repole – è questa: i compiti che hanno vescovi e preti sono annuncio, presidenza, celebrazione dei sacramenti, ma dopo tanti anni ci può essere qualche pericolo: ad esempio quello di non avere una chiara gerarchia di quei compiti e soprattutto di pensare che qualunque cosa il prete faccia in ognuno di questi tre ambiti abbia lo stesso valore. È lo stesso, ad esempio, quando presiede l’Eucarestia o ci riconcilia nella Confessione e quando predica senza essersi preparato tanto bene? O quando stabilisce il menù della festa parrocchiale?».
«Un secondo punto è stato di dirci che il vescovo ha la pienezza dell’ordine» senza articolare compiutamente questa pienezza con gli altri gradi del sacramento. La mentalità uscita dal Vaticano II è che ci sono dei ministeri laicali (lettore, accolito), poi i diaconi i preti e infine il vescovo, che sta più in alto ed è «come la matrioska che si mangia tutto il resto». «Il pericolo – spiegava Repole – è quello di immaginare i preti chiusi in un ministero monarchico isolato», dove «quanto più assumi un compito tanto più “ti mangi” i compiti inferiori».
Avremmo sempre bisogno di qualcuno che presiede la liturgia eucaristica «ma – commentava Repole -dovremmo sempre meglio calibrare il motivo di questa presenza. Cosa dobbiamo chiedere a chi presiede? In primo luogo che aiuti la comunità a non deragliare dall’insegnamento del Vangelo e degli apostoli. Poi – aggiungeva – non dobbiamo pretendere o credere che un ministro sia esperto di tutto». In tal senso Repole ha provato a descrivere nuovi scenari: «Nel futuro possiamo immaginare che il ministero presbiterale sarà tanto più fecondo e snello quanto più il prete venga pensato non come un individuo, ma come membro di un corpo, il presbiterio, presieduto dal vescovo» nel quale rintracciare carismi, capacità, attitudini diversificate.
«Mi immagino – proseguiva Repole – che nel futuro sarà anche necessario fare tesoro di un’altra novità del Concilio che in 60 anni abbiamo usato poco e male» come «il ministero del diacono, oggi spesso limitato al servizio liturgico». Nel futuro – già lo aveva intuito il teologo Karl Rahner – «sarà sempre più decisivo che esista un ministero della carità, non solo nel senso di aiutare i più poveri, ma anche nel fare quella carità capace di mettere le persone in rete laddove la comunità civile tenderà a sfaldarsi».
E ancora Repole ricordava come sempre più decisive delle ministerialità battesimali (perché in esso radicate) e formalizzate (termine che predilige a “istituite”) di cristiane e cristiani laici. Repole ha provato a esemplificare descrivendo accoliti che colmano le tante solitudini delle città, laici impegnati nell’amministrazione parrocchiale o esperti di ascolto. «Mi sembra – ha poi spiegato – che non sarebbe fecondo immaginare ministeri formalizzati a vita. Primo perché sarebbe difficile trovare persone in grado di svolgere un certo servizio fino alla fine della loro vita. Poi perché ci sarebbe il problema del clericalismo di laici che si accaparrano un servizio per sempre, escludendo gli altri». «Un rimedio – affermava Repole – potrebbe essere quello di istituire ministeri per cinque anni. Un tempo adeguato a svolgere un servizio ma non eterno».« Un’altra attenzione che chiederei è la formazione. Per svolgere un servizio è bene che ci si senta attrezzati e adeguati, con un minimo di conoscenza teologica, ma anche attrezzati in una sapienza pratica, non solo una intellettuale». Se il calo delle vocazioni mette in crisi tante parrocchie «non sarebbe possibile trovare laici disposti ad aprire e chiudere la chiesa, visitare i malati, sostenere i poveri? Un ministero non del singolo, ma del piccolo gruppo, almeno tre», perché si capisca il senso ecclesiale del servizio.
D’altra parte, come emerso dalle domande rivolte al termine della relazione, per crescere come Chiesa, ha concluso Repole, «ci deve essere da qualche parte un luogo, uno spazio in cui si fa esperienza dell’essere fratelli, amici, in Cristo. Molto spesso non abbiamo questo da offrire e il nostro uscire non è il riverbero del nostro essere». Forse, domandava ancora Repole, la nostra fatica missionaria nasce da una mancanza di fede: «siamo ancora convinti che non ci sia alcun nome nel quale siamo salvati se non quello di Gesù Cristo? Se in Gesù Cristo si gioca la bellezza e l’eternità della nostra vita possiamo negare questo tesoro ad altri? La nostra fatica di annunciare il Vangelo è la fatica di vivere del Vangelo. Per cui – concludeva – quando parliamo di missionarietà spesso parliamo di “propaganda”. Ma questa è un’altra cosa».
Ugo Feraci
(Tratto da La Vita-Pistoia Sette, dorso diocesano di Avvenire)