L’edizione 2024 dei Dialoghi di Pistoia è dedicata al cibo, di fatto una delle grandi “passioni” dei nostri tempi, almeno per quel mondo occidentale in cui cibarsi non è questione di sopravvivenza, ma dimensione sociale, economica e culturale di primo piano.
Al termine della visita alle famiglie per la benedizione pasquale, provo a ricucire le impressioni raccolte qua e là, quando in orari più inopportuni ho sconfinato negli spazi e nei tempi del cibo. Rare, a dire il vero, le occasioni in cui ho incrociato tutta la famiglia a tavola. A cena, o col boccone in bocca, ho però salutato e incontrato molta gente. Anziani soli, nonne che mettono a tavola i nipoti, vedove rincantucciate col piatto davanti al televisore e la pentola al fuoco, uomini soli nella cui casa la cucina e la tavola si confondono con scrivanie o banchi da lavoro. Cani e gatti ben pasciuti, nipotini immersi in un’eterna merenda. Altrove, fuori dalla porta, ho inciampato nei cartocci del delivery o della pizza. Anche l’esperienza del cibo, nelle nostre case si fa dunque sempre più individuale e solitaria. Fuori, nei locali del centro le coppie siedono, mute, allo stesso tavole; sui gradini dei vicoli gli adolescenti sciamano da un kebabbaro all’altro con la birra e il panino tra le mani per consumi immediati adatti a tutte le tasche. Ma la città, mi dico, non è così rappresentativa, perché la popolazione è anziana, c’è la mobilità dei giovani, orari di lavoro complicati, etc. Eppure cibarsi insieme custodisce la forza perenne del rito, apre alla relazione con l’altro. Dopo che si è mangiato insieme non siamo più davanti a un estraneo. La socialità del cibarsi oggi trova e cerca altri spazi rispetto alle tavole casalinghe?
La Chiesa, facile spiegarlo, ha custodito e valorizzato l’incontro attorno alla mensa. Eppure anche nelle nostre assemblee qualcosa è mutato. La Comunione c’è chi la riceve in ginocchio, chi dopo essersi genuflesso, chi con entrambi i ginocchi per terra, chi solo in bocca, chi in mano. C’è chi la afferra rapace e chi la accoglie come un’elemosina, chi arriva col capo velato e chi con le mani in tasca. Poi c’è chi non la prende affatto perché tanto c’è la Messa in televisione, chi la Messa non la sente, perché c’è gente o quel prete. Anche alla mensa del Signore, per quanto nella stessa celebrazione, ognuno fa quel che crede, chiuso nella sua bolla. E dire che la chiamiamo Comunione.
Eppure, quanta forza ancora racchiude il valore della mensa, il convenire il giorno di festa attorno all’altare per l’unico cibo, di vita e salvezza. È vero: l’andazzo del mondo lo trovi anche nelle nostre chiese ma non tutto si sgretola. Il giorno di Pasqua ho portato la Comunione a una signora anziana. Aveva la tavola apparecchiata col servizio più bello, il vino, la carne già pronta, le coppette da dessert già colme di fragole. «Poi ci mettiamo il gelato», mi diceva. «Oggi viene mia sorella a pranzo »; 94 anni la sorella, 92 lei, ma ancora capace di riconoscere la festività di una mensa che non è solo cibo, ma dono d’amore.
Ugo Feraci
(Tratto da La Vita-Pistoia Sette, dorso diocesano di Avvenire)