Nel programma del 7 giugno incontro con il medico palliativista che incrociò il percorso della Beata

All’interno del ricco programma che caratterizzerà l’appuntamento pistoiese della “Lunga notte delle chiese”, la chiesa di San Leone sarà il luogo dell’incontro dedicato alla beata Chiara Luce Badano, che sarà ricordata grazie alla testimonianza del dottor Ferdinando Garetto, medico e palliativista.

L’incontro di Garetto con Chiara Luce avviene dopo che a sedici anni, durante una partita a tennis, Chiara avverte i primi lancinanti dolori a una spalla: callo osseo la prima diagnosi, osteosarcoma dopo analisi più approfondite. Inutili gli interventi alla spina dorsale, c’è bisogno della chemioterapia, arrivano gli spasmi e la paralisi alle gambe. Chiara rifiuta la morfina che le toglierebbe lucidità. Si informa di tutto, non perde mai il suo abituale sorriso. Alcuni medici, non praticanti, si riavvicinano a Dio. La sua cameretta, in ospedale prima e a casa poi, diventa una piccola chiesa, luogo di incontro e di apostolato. «L’importante è fare la volontà di Dio» dice Chiara «è stare al suo gioco. Mi piaceva tanto andare in bicicletta e Dio mi ha tolto le gambe, ma mi ha dato le ali».

Il percorso di beatificazione di Chiara Luce è passato dalla guarigione un altro giovane, un ragazzo di Trieste, guarito “miracolosamente” dopo la richiesta di intercessione a Chiara da parte dei parenti. «L’ho conosciuta quando ero stato a Torino – ricorda il dottor Garetto a proposito dei primi incontri con Chiara Luce -. Mi ricordo che sono stato nella sua stanza pochi minuti e sono uscito di lì con due impressioni. Una: che splendore! Nei suoi 17 anni, la sua simpatia, la sua forza. L’altro pensiero: cosa sarà di questo sorriso, quando la malattia andrà avanti, quando capirà?». Un dubbio più che legittimo ma che la forza e la fede di Chiara in realtà non hanno mai spento. «Noi che le siamo stati accanto – prosegue Garetto – sentivamo che non potevamo fare a meno di andare a trovarla nella sua stanza perché entravamo lì e vedevamo la certezza dell’amore di Dio. Senza tante parole ma solo per il clima che c’era, sentivamo che dovevamo essere alla stessa altezza sua e vivere per qualcosa di grande. Chiara ci ha segnati per tutta la vita anche solo con quel sorriso e quella stretta di mano». Un modo di affrontare il percorso della malattia, inevitabile, che ha avvicinato al senso della fede anche chi si pensava più distante.

«Soprattutto – conclude Garetto – la vita di Chiara è una grande risposta al grande interrogativo delle cure palliative. Una volta che abbiamo controllato il dolore, che abbiamo controllato i sintomi, resta comunque la grande domanda del morire: quale può esserne il senso, quale può esserne il significato. Chiara ha vissuto e vive questa dimensione. Perché rifiuta la morfina, cosa che non capivo in certi momenti? Perché aveva qualcosa di più grande per cui vivere. Una risposta che ho avuto, e può sembrare strano, da un mio collega non credente. Quando gli ho raccontato di Chiara, mi ha detto: ma sai perché poteva rifiutare la morfina? Perché lei aveva trovato un senso, un significato più grande in quel dolore. E il dolore in cui trovi il senso e il significato, è già vinto».

Dario Cafiero

(tratto da La Vita – Pistoia Sette, dorso diocesano di Avvenire)