(riprendiamo da La Vita del 15 ottobre 2017 l’editoriale di Mons. Frosini; una sintesi del suo intervento in occasione de ‘i linguaggi del divino’ di giovedì 12 ottobre)
Per una chiesa missionaria
Allo sviluppo straordinario del tema della missione in questi ultimi anni non sempre è corrisposta una adeguata presa di coscienza da parte della comunità cristiana, almeno in parte ancora legata ai vecchi schemi largamente superati dal concilio Vaticano II in poi. Sono almeno tre i passi che il magistero della chiesa ci ha invitato a fare per vivere in pienezza quella vocazione missionaria che è propria della comunità ecclesiale. Li enumeriamo schematicamente perché i lettori si rendano conto dei loro doveri e delle loro responsabilità.
Il primo passaggio è quello dalle missioni alla missione. Una conclusione registrata dallo stesso concilio Vaticano II, che ha segnato la fine della mentalità della delega, che affidava la missione a coloro che partivano per i continenti lontani, cui il grosso della comunità garantiva una certa assistenza spirituale e materiale, rimanendo nei propri paesi e sostanzialmente senza ulteriori preoccupazioni. Anche sulla base delle mutate condizioni religiose e culturali della società e soprattutto di una più attenta meditazione dei testi ispirati, il concilio maturava la convinzione che l’impegno di evangelizzare è tipico di ogni battezzato e chiama in causa l’intera comunità cristiana. “Tutta la chiesa è missionaria, tutta la chiesa è essenzialmente missionaria, la missionarietà è una sua caratteristica fondamentale”. Fino al punto che Paolo VI affermò categoricamente che “la chiesa o è missionaria o non è”, cioè non è chiesa. Una legge da applicarsi a tutte le comunità cristiane, dalla più grande alla più piccola. La chiesa nel suo complesso o è missionaria o non è, altrettanto una chiesa particolare, una diocesi, altrettanto ancora una parrocchia. Dopo cinquanta anni in cui sono state ripetute mille volte queste parole, c’è per tutti la necessità di un vero e proprio esame di coscienza. Che cosa ne abbiamo fatto di una prospettiva e di un impegno così importante? La missione ai lontani continua, ma i lontani ormai li abbiamo anche vicino a noi.
Un secondo momento di approfondimento del tema missionario fu sviluppato da Paolo VI in uno dei documenti più belli dell’intero magistero della chiesa, l’Evangelii nuntiandi del 1975 e riguarda il tema dell’impegno sociale, della giustizia, della pace, come si imparò a dire allora della liberazione. Riascoltiamo con rinnovata attenzione le sue parole: “L’evangelizzazione comporta un messaggio esplicito adatto alle diverse situazioni, costantemente attualizzato, sui diritti e sui doveri di ogni persona umana, sulla vita familiare senza la quale la crescita personale difficilmente è possibile, sulla vita in comune nella società, sulla vita internazionale, la pace, la giustizia, lo sviluppo: un messaggio particolarmente vigoroso nei nostri giorni, sulla liberazione”. Persona, famiglia, società, ordine internazionale: sono i capitoli fondamentali del pensiero sociale della chiesa, che da allora è diventato oggetto di missione, di evangelizzazione, di catechesi. O meglio: doveva. Perché purtroppo non è stato così. Altro argomento per il nostro esame di coscienza, personale e collettivo.
Il terzo momenti di crescita è stato dettato da Giovanni Paolo II con la sua enciclica missionaria, Redemptoris missio (1990) che, nel tempo della globalizzazione e del conseguente intrecciarsi dei popoli, delle culture e delle religioni, includeva nella missione della chiesa anche il dialogo interreligioso. Queste le sue parole: “Il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della chiesa”. Dialogo anzitutto: cioè incontro, confronto, ascolto, discussione, ricerca comune, accettazione di suggerimenti validi, senza condanne e senza preclusioni di sorta, con semplicità, umiltà, nonché coerenza alle proprie convinzioni. Il dialogo è ormai componente essenziale della missione e dell’evangelizzazione, come aveva già ricordato Paolo VI fin dall’inizio del suo pontificato e come ha fatto la chiesa fino dai primi giorni della sua esistenza.
Alle religioni aveva guardato con grande apertura e simpatia anche il concilio Vaticano II, i documenti post-conciliari hanno approfondito e ampliato questi elementi di apprezzamento. Ai tempi di Giovanni Paolo II e del cardinal Joseph Ratzinger prefetto della Congregazione della dottrina della fede, si è arrivati a riconoscere loro una “mediazione partecipata” nei riguardi del cristianesimo. L’unico mediatore di salvezza per il cristiano rimane Gesù Cristo, ma una mediazione subordinata viene riconosciuta anche alle altre religioni, specialmente alle più importanti come il musulmanesimo, il buddhismo, le antiche religioni orientali. Papa Francesco fa sue queste conclusioni e chiede alla sua chiesa di riformare tutte le sue espressioni in funzione di questo dialogo, che ora rimane un impegno privilegiato per esse, cominciando dalle parrocchie.
Giordano Frosini